Massimo Carboni

La nostra attenzione si soffermerà in primo luogo su un dettaglio marginale di una grande opera d’arte del Novecento, un dettaglio apparentemente insignificante, un evento accidentale e quasi ridicolo, un resto. Fa infatti parte di ciò che resta in più dopo aver enumerato l’insieme. Ci applicheremo dunque ad una fenomenologia dell’inessenziale.
Se osserviamo attentamente, ci accorgiamo che per ben due volte, in due distinte inquadrature del celebre La passione di Giovanna d’Arco del regista danese Carl Theodor Dreyer, una mosca si posa e zampetta per qualche secondo sul viso dell’attrice Renée Falconetti, che interpreta – in maniera rimasta memorabile nella storia del cinema – la protagonista Giovanna. Inesplicabile ed imprevisto, un frammento di reale – in tutta la sua immediatezza, in tutta la sua singolarità – fa a suo modo ingresso permanente nell’immagine. Il regista non taglia in montaggio le due inquadrature, lascia che questo minuscolo, insignificante incidente resti per sempre integrato nella sua opera. Non si tratta affatto di una programmatica accettazione del caso. Dreyer non è un dadaista né un surrealista; è un autore rimasto celebre per il suo rigore formale, per la sua capacità di controllo e di dominio sul linguaggio filmico. L’episodio semmai indica come l’opera d’arte, e soprattutto l’opera d’arte moderno-contemporanea sia qualcosa che, nel suo stesso farsi, appare radicalmente esposta all’evento fortuito che si dona, alla nuda contingenza che irrompe a partire da un fuori ignoto e incontrollabile, ove domina incontrastata l’equiprobabilità dell’accadere.


La mosca compare improvvisa in due scene importanti del film. Una prima volta durante l’interrogatorio che si svolge nell’aula ove si celebra il processo. La seconda, quando viene offerta alla Pulzella l’estrema unzione il cui prezzo è l’abiura. Soffermiamoci sulla prima occorrenza, poiché l’irruzione dell’insetto è come se trasformasse la scena in una sorprendente struttura en abîme in cui sembrano intrecciarsi casualità e inattese concordanze.
Giovanna è dunque sotto i colpi dell’interrogatorio che si fa sempre più incalzante, ordito con l’inganno in modo da indurre l’accusata a pronunciare dichiarazioni che la compromettano. «Sei in istato di grazia?», le domandano. La fanciulla tace smarrita, indecisa, angosciata. L’atmosfera è tesa, impenetrabile; altissimo il climax drammatico. È a questo punto che una mosca si posa sulla fronte di Jeanne-Falconetti e la percorre dall’attaccatura dei capelli fin sopra la palpebra dell’occhio sinistro per poi volarsene via scacciata dolcemente con la mano. Ebbene, proprio qui, nella sceneggiatura scritta dallo stesso Dreyer, troviamo la seguente annotazione vòlta a descrivere la drammaticità del momento: «Durante alcuni secondi il silenzio è tale che si sentirebbe volare una mosca». Si era accorto Dreyer dell’incredibile coincidenza? O forse – ma è da ritenersi poco probabile – ha aggiunto in sceneggiatura quella frase dopo l’irruzione della mosca sul set? I bizzarri interrogativi che ci stiamo ponendo presuppongono che il regista abbia visto la mosca, si sia accorto della sua rapida comparsa. E ovviamente non potrebbe essere il contrario. Anzi, vi fa un breve, inusuale accenno. In un’intervista del 1964, parla di un «piccolo incidente» avvenuto durante la lavorazione del film. «Vi ricordate di quella mosca sul viso di Giovanna d’Arco? Cercavo di fissare sulla pellicola tutto il rigore logico dell’azione e la situazione psicologica dei personaggi. E poi, ecco quella mosca che si posa sul volto della Falconetti. Era un dono del cielo. Temevo che l’operatore fermasse i motori, invece no, egli aveva capito, ch’era un elemento nuovo, una terza dimensione che veniva a introdursi nella scena. Chiamate questo mistico, se volete».

Occorre quindi considerare come nient’affatto futile e impertinente il dettaglio della mosca, perché esso incarna il contingente che non può non mostrarsi, l’inintenzionale che si dona, l’evento inaspettato. Quasi a sigillare il “cerchio magico” di queste coincidenze (inattese esattamente come la mosca cui ruotano attorno), bisogna osservare che il regista parla – a proposito del piccolo incidente accaduto durante le riprese – di un «dono del cielo» arrivato sul set. E guarda caso l’argomento in campo nel primo momento in cui irrompe la mosca è la grazia; nel secondo, un sacramento, l’estrema unzione. Una mosca, una stupida mosca, insetto tra l’altro legato alla sporcizia e alla decomposizione, forièra di un caposaldo teologico della cristianità? In effetti è così, ma rispondere articolatamente a questa domanda ci porterebbe lontano dal tracciato che ci siamo imposti.
L’unica altra occorrenza sotto ogni profilo analoga, anzi identica, la troviamo nell’Ivan Grozny di Ejzenštein (cioè in un altro sommo maestro del controllo registico!). Imprevista e folle, illogica e insensata, una mosca va a posarsi e per qualche secondo zampetta sulla corona della zarina Anastasia Romanovna, impegnata in una conversazione segreta con il principe Andrei Kurbskij, suo amante. E anche in questo caso, guarda caso, la mosca compare in coincidenza con un esplicito riferimento alla morte, poiché si posa sulla corona della zarina mentre questa pronuncia le parole «non conviene seppellire un vivo prima della morte», riferite appunto allo zar apparentemente in fin di vita. Anche Anastasia Romanovna, dunque, è a contatto – proprio come Dreyer dice di Giovanna d’Arco – con qualcosa che non è «di questo mondo»: con la morte.
Siamo dunque alle prese con un’inezia, con un incidente casuale e insignificante, con un nonnulla. Come possiamo interpretare qualcosa che a malapena è una cosa, che non soltanto, presentandosi, dichiara tutta la sua vacuità, ma che per di più non appena compare dilegua? Qualcosa che tuttavia non cessa di indicarci una sua marginale centralità.

Fin dalle sue origini, il cinema ha a che fare, in diversi modi e a diverse intensità, con la contingenza e l’accidentale. Con il puro accadere. Fin dai suoi esordi, il cinema – molto più di ogni altra pratica tecnico-artistica – è sia controllo, mediazione, sia immediatezza, contingenza. Ottemperando al suo stesso principio costitutivo, il cinema ci restituisce dunque la fugace, fortunosa accidentalità. Alla vita, di essere filmata, non le importa nulla. Ma forse è proprio per questo che l’accadere incalcolabile, insomma la vita che il regista vuole riprendere (quanti “armonici”, almeno in italiano, in questo verbo: ‘continuare l’opera’, ‘riprodurre’, ma anche ‘rimproverare’) si rivela sempre più o meno refrattaria alla sua stessa impaginazione, penetra e si infiltra continuamente, talora surrettiziamente, nella rappresentazione. È evidente che stiamo sostanzialmente riferendoci al cinema storico, basato su di un supporto analogico quale la pellicola fotografica, perché con le nuove tecnologie digitali il controllo e la programmazione di ciò che viene filmato arriva a livelli pressoché assoluti. Stiamo cioè parlando di un cinema aperto al contingente e al fortuito, in cui l’indeterminato e l’accidentale – vale a dire ciò che abbiamo sempre davanti agli occhi senza accorgercene – giocano talvolta un ruolo decisivo. Come se il fare poietico fosse istitutivamente in rapporto con ciò che non può afferrare; come se l’opera non fosse mai interamente in possesso di chi sembra condurne le sorti. E potremmo pensare al primo neorealismo italiano, a Godard, al cinema di avanguardia e di ricerca degli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso.

La macchina da presa per certi versi ed in certo cinema coglie ciò che non si vuole intenzionalmente mostrare, ma che tuttavia si mostra. Ma soprattutto: vedo ciò che – in qualità di elemento spurio, letteralmente di circostanza – non può non accompagnarsi a ciò su cui intenzionalmente viene diretta e attratta la mia attenzione. E ciò che non può non esserci, così come ciò che non si può non sapere, si mostra misteriosamente inafferrabile. Nel suo svolgersi temporale, l’immagine cinematografica è forse l’unica che lascia allo sguardo che vi si posa e vi fa ingresso la possibilità non accidentale, ma strutturale, il diritto intrinseco e costitutivo di guardare altrove rispetto al soggetto focale e intenzionale della rappresentazione; il diritto di dirigersi verso il dettaglio involontario, verso ciò che di inintenzionale o preterintenzionale non può non accompagnarlo circostanziatamente. Ma che cos’altro può essere questa sorta di fenomenica dell’inintenzionale se non ciò che nella vita vissuta vediamo senza guardare, che abbiamo sempre sotto gli occhi, senza per questo (anzi, proprio per questo) trasformarlo in oggetto-obbiettivo della nostra attenzione-intenzione? Quello dei Lumière – e degli autori che a quella radice in maniere molteplici sono risaliti – è il cinema dell’istante qualunque; è il cinema che ci seduce con il fantasma del tale quale, che ci sbalordisce mostrandoci ciò che nella vita reale non ci sbalordisce affatto. Che è poi una delle definizioni più semplici, ma corrette ed appropriate di quel qualunque cosa come tale che è il readymade da Duchamp in poi (dunque dell’ètimo stesso della contemporaneità artistica). La ruota di bicicletta o lo scolabottiglie, insomma l’oggetto qualunque trasformato – ma precisamente restando tale quale – in oggetto artistico dalla scelta dell’artista e dalla sua collocazione in un contesto socialmente riconosciuto come artistico. I primi spettatori delle “vedute Lumière” –probabilmente come i primi spettatori dei readymade – furono dunque sbalorditi da ciò che nella realtà non li sbalordiva affatto. Si tratta di uno sbigottimento che ci prende alla vista di ciò che – così come la contingenza non può non esserci – il cinema non può non mostrare come fortunoso dono del quotidiano che arriva chissà da dove, del c’è contingente e comunque presupposto, del va-da-sé della vita. Da questo punto di vista, nel cinema dell’istante qualunque c’è già la cinepresa di Andy Warhol puntata per ore e ore sull’Empire State Building, ci sono già le interminabili sequenze “vuote” di Straub-Huillet. Attraverso un cinema pensato come ricettività totale della vita, il quotidiano – nella miriade dei microeventi che lo compongono ed in cui si disperde, nell’incalcolabile ed irriflessa contingenza che c’è prima, comunque e indipendentemente dal fatto che venga intenzionata o meno –, il quotidiano dunque si fa spettacolo integrale continuo, assoluto.

È tempo di tornare alla mosca di Dreyer (e di Ejzenštein). La mosca zampetta dunque sul volto in primo piano di Jeanne (e della zarina Anastasia). Così come l’irruzione della mosca è il segno-sintomo dell’ingovernabilità del reale, così il viso sul quale essa si posa è la parte del corpo umano in cui si addensano le superfici incontrollabili, sul quale prendono vita e si manifestano le microfisionomie involontarie attraverso le quali il viso si apre alla relazione etica e diventa volto vulnerabile, offerto, esposto allo sguardo dell’altro. Allo sguardo della macchina da presa, che coincide con quello dello spettatore. La mosca si posa sulla sottile lingua di quella terra di nessuno, su quel solco di nulla che divide il visibile intenzionale dal visibile involontario, il mondo reso opera dal mondo non cercato. Assistiamo cioè all’incontro con l’Incontro, con tyche, cioè con il caso fortuito che ha fatto incrociare il volo di una mosca con un certo assetto situazionale-operativo (il set di Giovanna d’Arco) dotato di strumenti di registrazione-archiviazione visiva dell’esistente. Accettando la mosca, Dreyer si dispone a fare esperienza dell’indisponibile e dell’impadroneggiabile, di ciò di cui non si può fare deliberatamente esperienza: “produce” di quanto gli si fa avanti l’improducibile; “crea” nella misura in cui gli si fa incontro qualcosa che non può creare, può precisamente nella misura in cui non può potere.

Dreyer o Ejzenštein osano non agire, non intervenire: si limitano semmai a reagire all’immanenza. Come due saggi taoisti, come due maestri zen. Di colpo e d’improvviso, un’inezia che proviene da tutta una fattualità inavvertita, involontaria e impersonale, si presenta sotto forma dell’inafferrabilità di ciò che ci è più prossimo. Punto in cui l’opera coincide con la vita ma, proprio per questo, punto che infinitamente la disfa e la decentra, la rende inoperante. Si potrebbe dunque dire che l’assunzione della contingenza risulti il gesto forse essenziale del cinema che si avvale del supporto analogico, rappresenti per così dire il filmico del film. Con un inusitato movimento d’inversione, anzi con un vertiginoso e azzardato rovesciamento delle parti, è la mosca ad attestare che di cinema e non d’altro in verità si tratta; è lei a certificare che stiamo veramente assistendo a qualcosa come un film.

La mosca è quel residuo singolare di concretezza sensibile, quel grano di reale puro che la macchina da presa non può metabolizzare, ma cionondimeno non può non mostrare. Nel linguaggio della scolastica, si tratterebbe di una haecceitas indiluibile nel pensiero perché non può venirle attribuito alcun elemento di generalità, di estensione categoriale: è sempre un questo o un quello, una determinatezza originaria della datità effettuale, un singolare senza alcuna proprietà generica. Perché l’irruzione della mosca ha davvero tutte le caratteristiche dell’evento. Le cause pulviscolari e irrintracciabili, disperse e innominate della sua irruzione – chiuse nel cuore stesso, inispezionabile, della complessità (del) vivente, come dire in mens dei –, quindi su cui non può posarsi nessuno sguardo panoramico-onnicomprensivo e dunque nemmeno una panoramica cinematografica, ebbene quelle cause nulla hanno a che vedere con il progetto e poi la realizzazione di un film. In altri termini, e molto banalmente, non v’è alcun incrocio, intersezione, sovrapposizione logica tra le due serie o catene di causalità: tra il volo di una mosca e la realizzazione di un film. È un evento perché arriva laddove non lo si attende, arriva cioè nella sua libera e autonoma effettualità. Un’effettualità, a ben vedere, insostituibile, irrimpiazzabile. Perché è vero che – considerata come occorrenza esemplificativa di una eventualità quale che sia, di un generale e indeterminato poter-accadere di un accidente – la mosca che zampetta sul volto di Jeanne o della zarina appare perfettamente fungibile (una mosca, dopotutto, vale l’altra; e poi avrebbe potuto trattarsi, condizioni di visibilità permettendo, di una zanzara; oppure di un terremoto). Ma considerato invece in quanto tale, in quanto quella mosca e non un’altra e non altro, allora l’evento gode di una presenzialità indelegabile, indisponibile, assolutamente singolare – benché fulminea e dileguante, benché in pochi attimi di nuovo preda di quel nulla da cui proviene. Ma anche e nello stesso tempo: effettualità segnata dall’irrevocabile. È in questo senso, infatti, che Dreyer assume, facendone immagine, la circostanza immanente e accidentale della mosca nella figura in cui, in quel preciso istante attuale e puntuale, arriva, si mostra, si dona al pari di una grazia e se ne va. La decisione di lasciare i fotogrammi contenenti la mosca è inevitabilmente affètta da quel ritardo strutturale in base al quale posso accogliere l’evidenza fenomenica solo posticipatamente, poiché ne sono sempre per definizione preceduto. Dreyer reagisce all’evento nell’unico modo possibile: archiviandone tecnologicamente la traccia. Detto altrimenti: è tanto vero che il cinema mai potrà liberarsi dell’inintenzionale, dell’eventuale, del mondo non voluto né cercato, che addirittura lo archivia lasciando che ne rimanga traccia.

Avviamoci alla conclusione di questo primo atto. Abbiamo prima evocato la condizione mortale propria dell’evento contingente, che nella labilità e nella precarietà si dona solo passando, cioè mostrandosi nel suo stesso dileguarsi. Sappiamo che quello che a noi, esseri mortali e finiti, appare contingente, in Dio potrebbe essere necessario: sotto questo aspetto, la mosca sarebbe il balenare improvviso dell’Ordine imperscrutabile e inattingibile. Vale a dire che il contingente (ad esempio in Spinoza) ha profondamente, costitutivamente a che fare con le carenze e i limiti del nostro intelletto, del quale è, per così dire, l’altra faccia. Ha a che fare con la nostra finitezza, con la nostra difettività originaria. Se alla radice dell’evento contingente sta il suo poter non accadere, allora la mosca di Dreyer (e di Ejzenštein) ci rinvia inesorabilmente all’esteriorità più assoluta, al fuori ineludibile: cioè alla morte, alla sua possibilità. Che il mondo mi si doni nella sua carne e sostanza e che sia di questo certo, non esclude per principio che esso possa non essere. Mentre sperimento il mondo, v’è immanente la possibilità che esso non sia. Questa possibilità di morte è inscritta nel cuore stesso della presenza, dunque della vita. Nell’intimo di ciò che pur indubitabilmente intuisco ed esperisco, è racchiusa la chance dell’inintuibile, dell’inesperibile.

Un evento accade solo a partire da se stesso, cioè dall’assenza di un orizzonte che lo anticipi. Questa assenza ci intimorisce e ci inquieta, perché sappiamo bene che questo qualcosa, ogni volta, può sempre essere la morte, cioè l’assenza radicale che si presenta. L’incontro fortuito con la mosca, abbiamo detto, è tale solo a partire dalla possibilità che non (av)venga, anzi che nessun incontro di nessuna sorta si dia. Di nuovo siamo tentati da deduzioni paradossali. Si potrebbe concludere che Dreyer non avrebbe potuto girare La passione di Giovanna d’Arco se non avesse rischiato che nessuna mosca volasse sul set per poi posarsi per qualche secondo sul volto della protagonista. Ciò che arriva, arriva proprio perché potrebbe non arrivare, o meglio arriva attraverso la possibilità di non arrivare. Al suo posto, potrebbe arrivare la morte, perché è l’essere stesso che potrebbe mancare. La mosca più di altri insetti sembra segnare – anche nel nostro immaginario – il destino di ciò su cui si posa, che è un destino di lordura e decomposizione. Così il volto della Falconetti che soffre e si offre, assume su di sé, intera e indivisa, la disgiunzione vivo/morto, quasi la neutralizzasse portandosi in una terra di nessuno in cui la morte vive. Ma è paradossalmente in questo modo che la vita si fa immagine, immagine di una qualità, di un’intensità quasi intollerabili. Forse solo il cinema può far questo e restituirlo allo sguardo. Come se non vi fosse il volto di Jeanne se la mosca non vi si posasse sopra. Come se – del tutto follemente – La passion de Jeanne d’Arc fosse stato girato solo allo scopo di catturare e archiviare il volo di una mosca nelle campagne di Clamart, alle porte di Parigi, in un giorno imprecisato tra il febbraio e il novembre del 1927.

Questo articolo è una sintesi del primo capitolo di un libro dell’autore Massimo Carboni uscito nel 2007 dal titolo La mosca di Dreyer, Jacabook, Milano.


Filmografia

Ivan il Terribile (Ivan Grozny) (Sergej Michajlovič Ėjzenštejn 1945)

La passione di Giovanna d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc) (Carl Theodor Dreyer 1928)