Alessandro Cappabianca
«Un’altra avventura vi racconterò, più strana ancora...»
È l’inizio di Cosmos, il romanzo di Gombrowicz, che però, nella trasposizione cinematografica di Zulawski, è sostituto dai celebri versi d’apertura della Divina Commedia («Nel mezzo del cammin...» ecc.). Nella filmografia del regista polacco, d’altra parte, non si può certo dire che manchino avventure “strane” – in che senso, allora, quella di Cosmos sarebbe ancora più strana? Ma davvero lo è?
Per limitarci ai casi più eclatanti, pensiamo all’Essere maligno (il Diavolo?) che circuisce il giovane Jakub in Diabel, al mostro tentacolare da cui è posseduta Anna (Isabélle Adjani) in Possession, alla misteriosa mummia dello sciamano in Szamanka ecc. Storie strane, senza dubbio. In che senso le avventure suggerite a Zulawski da Cosmos lo sarebbero ancora di più? Forse lo sono proprio in quanto, senza diavoli, né mostri né antiche mummie, si verifica una proliferazione incomprensibile di segni enigmatici all’interno d’una realtà in apparenza molto normale: il soggiorno di due studenti in vacanza, a pensione presso la villa d’una famiglia borghese. Vero è che, per essere estate (tra l’altro, un’estate trasposta, per ragioni produttive, dalla Polonia in Portogallo), durante il soggiorno piove un po’ troppo – ma quelle meteorologiche sono tra le meno evidenti delle stranezze.
Piuttosto, visto che il film entra subito nel vivo dell’accadere, senza bisogno d’un narratore che dichiari preliminarmente di raccontare (Zulawski riteneva inutili le lungaggini degli incipit), l’analogon di quell’inizio si verificherà semmai alla fine, quando viene mostrata la troupe al lavoro durante le riprese.
L’avventura che ci aveva conquistato e inquietato non era dunque altro che un artefatto, un marchingegno costruito artificialmente? E a quale scopo?
È stato affermato che Zulawski alternasse film “epilettici” a film dal ritmo relativamente più disteso. Forse è più esatto dire che accanto a film in cui la frenesia psico-motoria non dà tregua (e sono poi quelli che contribuiranno a costruirgli attorno un’aura di scandalo), se ne trovano altri in cui tra un eccesso e l’altro esistono intervalli più lunghi di apparente normalità, durante i quali ci si può illudere che tutto stia andando bene. Il parossismo forsennato allora esplode quando, per una ragione o per l’altra (o senza una ragione apparente), si evidenzia il vuoto di senso in cui tutto sprofonda: il parossismo forsennato, o la repentina paralisi, che ne è l’altra faccia.
Eppure, nonostante tutto, Zulawski è un regista di incontri d’amore – solo che si tratta dell’amore balordo, dell’amour braque, perfino quando, come in L’importante è amare o in La fidélité, esisterebbero i presupposti per scioglimenti meno traumatici –, ma forse nessun incontro d’amore, in un film come in qualsiasi altra forma d’arte, funziona davvero se non è in qualche modo balordo. L’amore, nell’Amour braque, nasce tra l’ingenuo Léon, profugo ungherese con problemi psichici, e la smaliziata Marie (S. Marceau), costretta a prostituirsi e amante di Mickey, un fantasioso rapinatore di banche – ma è pure l’amore promiscuo e perverso che si manifesta nel mescolare suggestioni dall’apparenza assolutamente eterogenea: Dostojevskji (L’idiota), Cechov (Il gabbiano), i fumetti di Topolino. Non è del tutto chiaro, ma nella prima scena del film, quella della rapina in banca, è probabile che la maschera di Topolino, Mickey Mouse, tocchi a Mickey, alla fine trascinato alla rovina dal destino e dal suo nuovo amico, lo sciocco, un idiota dostojevskjano che, come tale, se avesse partecipato alla rapina, avrebbe potuto legittimamente indossare la maschera di Goofy.
Anche la sciamana (del film omonimo) è considerata una mezza idiota dal suo amante Michael – ma qui l’idiota possiede poteri malefici, incluso quello di dare la morte. Invano la mummia dello sciamano, ucciso tremila anni fa, si risveglia, parla e mette in guardia Michael: la donna sciamana l’ha ucciso per impadronirsi dei suoi poteri. Segue un avvertimento preciso: il segreto è la Morte, qualunque Dio è il Dio della Morte, un Dio infernale o, se vogliamo, un Dio da stazione sotterranea (la sotterranea difatti, come già in Possession, è il luogo privilegiato del disfacimento dell’identità, dove, nella solitudine, si cade in balia dei propri fantasmi).
Il segreto è la Morte, ed è un segreto collegato al cinema, che per Derrida è il simulacro assoluto della sopravvivenza – racconta la Morte perfino nel raccontare l’Amore – è il luogo deputato dei fantasmi, come quelli cui va incontro Clélia (ancora S. Marceau), alias principessa di Clèves, ne La fidélité, trasposizione zulawskiana, quindi tutto meno che fedele, da Madame de la Fayette.
I fantasmi cinematografici hanno tuttavia una particolarità, rispetto per esempio a quelli letterari: sembrano veri, nella misura in cui la presenza fisica di chi li incarna è (o era, prima degli effetti speciali elettronici) necessaria sul set. Dunque sono fantasmi carnali, se una cosa del genere si può concepire, e hanno sempre, in quanto tali, qualcosa a che vedere con i Doppi – spettri che evocano desiderio o repulsione, o le due cose assieme, simulacri che fanno senso, ossia sono capaci di sconvolgere i sensi, molto più di quanto possano le frasi scritte –; Zulawski, scrittore oltre che regista, lo sapeva bene.
Non so, poi, se sia proprio esatto parlare di Doppi, se per tali intendiamo qualcosa di speculare, come un’immagine identica che accompagna l’originale – il Doppio, in Zulawski, implica sempre una metamorfosi, almeno parziale, una trasformazione, variazioni più o meno agghiaccianti, più o meno mostruose.
Il Doppio della Bellezza è la Mummia.
Zulawski era uno dei pochi registi capaci di risvegliare e captare le potenze del caos, rendendo produttive le sue ossessioni, ritrovando le radici segrete, misteriose, irrazionali di comportamenti, gesti e reazioni che secoli di convenzioni recitative, psicologiche ecc., hanno provveduto a rendere stereotipi.
Con lui, si torna a capire che ogni gesto è in una certa misura isterico, che ogni reazione implica ben più che una semplice risposta allo stimolo corrispondente. L’identità scoppia, si frantuma, è la contaminazione, è il (ri)cadere preda di impulsi arcaici, contrastanti e incontrollabili. La schizo del soggetto investe perfino l’aspetto fisico, la riconoscibilità stessa.
Allora per gli attori, per le attrici, fossero pure star, si tratta di dimenticare chi sono, dimenticare il nome che portano e il retaggio della propria immagine. Si tratta di mettersi nudi o nude, non per mostrare il proprio potenziale erotico o la propria essenza, ma la profondità delle crepe che la percorrono. Si tratta di perdere il controllo, la padronanza stessa del corpo, visto che nel corpo si raccolgono le ultime pretese dell’identità.
Zulawski è sopratutto un regista di corpi, specializzato (sulla scia di Grotowski) nella messa in scena del loro supplizio, nello schianto, nella frantumazione della loro identità attoriale; e non può meravigliare che questa messa a nudo, messa in supplizio o messa in croce dei corpi, riguardi soprattutto corpi d’attrici, corpi femminili, rispetto ai quali più esplicitamente, nell’atto di mostrarsi, l’eros totalizzante si infrange, mostrando tutta la sua precarietà.
È vero però che girare un film, come scrivere un romanzo, significa compiere atti significanti che aspirano a estrarre almeno un barlume di senso dal caos (dall’assurdo).
È il paradosso del senso, che emerge più nettamente in tutte le opere basate sulla disseminazione di segni senza (apparente) significato, come per esempio in Cosmos: l’addensarsi di segnali enigmatici, la loro inspiegabile ripetizione, evocano alla lunga il consumo del significato dell’opera stessa.
Il significato di questi segni, dapprima, appare in effetti enigmatico, poi lascia fortemente sospettare di non esistere. Si tratterebbe allora di segni non tanto diversi per essenza da tutti gli altri, quanto più immediatamente riconoscibili come insensati – il che rende ancora più evidente (ma non meno misteriosa) la loro natura di segni.
Tali sono, per esempio:
- il passero, il pollo spennato e il gatto, impiccati nel giardino, fino all’ “impiccagione” dei pezzi di legno e al suicidio del marito di Lena;
- le macchie d’umidità sul soffitto, che somigliano a mappe geografiche, oppure a frecce indicanti direzioni misteriose;
- le formiche e la farfalla nel piatto, la lumaca sul panino, il rospo nella scatola, le api che escono dai pantaloni del prete;
- i giochi di parole, i ritornelli insensati dei discorsi di Léon, il suo andare in giro con una bacchetta da rabdomante;
- le crisi isteriche e le improvvise catatonie della signora Woytis;
- l’inquietante sovrapposizione tra la bocca perfetta di Lena e quella deforme della serva Catherette;
ecc. ecc.
La natura esplicitamente enigmatica di questi segni, che possono anche evocare i riti di antiche religioni dimenticate, tende a corrompere anche quelli più facilmente spiegabili. Così, è vero che l’impiccagione del gatto ad opera dello stesso Witold sembra non rientrare a pieno titolo nella serie delle impiccagioni misteriose, ma subito dopo rivediamo il medesimo gatto vivo e vegeto. L’impiccagione finale di Lucien, poi, sembra un suicidio, ma le sue ragioni ci sfuggono: si è suicidato per gelosia nei confronti della moglie? O perché ossessionato da un rito macabro che non riesce più a evitare di rivolgere contro se stesso? E comunque, che significato ha quell’albo a fumetti di Tintin che si trova ai piedi dell’albero al quale si è impiccato? Allude forse a una caccia al tesoro?
Potremmo dire che ci sono segni misteriosi per Witold (e per il suo amico Fuchs), accanto ad altri il cui senso risulta precluso solo agli spettatori. Tra questi, l’ingresso di Witold nel vecchio giardino sul cui portale campeggia un grande occhio radiante (simbolo massonico?), il doppio commiato finale tra Witold e Fuchs (con bacio e senza bacio) ecc. Più volte, del resto, anche i due amici parlando tra loro, si lanciano in esercizi di proliferazione dei significanti, giochi di senso e di parole per cui, ad esempio, la rivista di Sartre, «Tempi Moderni», richiama il film di Chaplin, e induce Fuchs a improvvisare, sotto gli occhi divertiti di Witold, un balletto chapliniano. Ma si può sostenere che l’introduzione di Witold stesso (a parte Fuchs) nell’orizzonte della famiglia che lo ospita, sia paragonabile all’arrivo dell’Angelo nella casa dell’industriale in Teorema di Pasolini, e altrettanto misteriosa – o forse di più, in quanto non annunciata.
L’ospite misterioso, lo straniero enigmatico, qui è Witold, come era Ezechiele in Diabel o la creatura mostruosa in Possession. In tutti i casi, si tratta di prendere atto, in ogni corpo, dell’assenza di un’anima. Ezechiele strappa a Jakub la firma per la cessione di qualcosa d’inesistente – Marc uccide Heinrich, il vecchio amante di Anna, e si accorge, nel separare l’anima dal suo corpo, che quella non sopravvive a questo.
Chi è il mostro che avviluppa Adjani nelle sue spire (tentacoli)? Da dove viene? Anna stessa lo ha generato? È forse l’emanazione della sua pazzia, tanto sfrenata da dare esistenza materiale agli incubi? Lo si può pensare, ma l’incubo è contagioso, come la peste, non risparmia nessuno, provoca la morte dei detective ingaggiati da Marc, ma anche lo sdoppiamento di Marc stesso, della stessa Anna, e il delirio d’auto-annientamento che li conduce a morire insieme (in due? O in quattro?).
L’epilessia della madre di Jakub, la frenesia di Anna, il corpo martirizzato della Adjani, si tramutano in Cosmos nella borghese isteria, alternata a momenti d’immobilità catatonica, di Sabine Azéma – ma sono sempre corpi ossessionati dalla mancanza d’anima, carne preda di deliri e spasimi, allucinazioni, Doppi spettrali.
I corpi degli attori e delle attrici, più che martirizzati o “santi” nel senso di Grotowski, sono corpi posseduti, percorsi da scariche elettriche, impulsi discordanti e frenetici, improvvisi blocchi. Le loro performances non possono basarsi in alcun modo sulla verosimiglianza psicologica o altre convenzioni recitative; non si tratta di esagerare questo o quel gesto, questa o quell’azione, ma di spiazzare, spezzare la consecutio dell’interpretazione. In questo senso, tutti i personaggi sono haunted, invasati, come nel titolo del romanzo che Witold vorrebbe scrivere. Solo che se l’Anna di Possession può amare un mostro, essere posseduta da lui, abbandonare per lui figlio e marito, impazzire, uccidere per lui, alla Lena (V. Guerra) di Cosmos il legame con Witold si presenta solo come possibile soluzione narrativa, in alternativa con l’altra, di un addio definitivo.
Finale multiplo, conclusioni accostate a contrasto.
Witold ama Lena, o meglio, cade innamorato di lei, senza preavviso né preamboli – vorrebbe strapparla al marito, come fa il Julien Sorel del Rosso e il nero con Madame de Rênal. Cade, come si precipiterebbe in una voragine che si aprisse all’improvviso sotto i nostri piedi. Cade da un albero. Cade da una scala. In fondo ogni caduta non è che una prova d’impiccagione, ogni impiccagione una prova di caduta.
Si perde la ragione, il senso sfugge. I segni enigmatici di Cosmos si possono anche considerare segnali che qualcuno inventa e dissemina per tentare di dare un senso alle cose. Qualcuno, ma chi? Uno dei personaggi? Gombrowicz, deus-ex-machina della narrazione? Zulawski, che non per niente, dopo i titoli di coda, fa scorrere le immagini dei trucchi impiegati?
Anche il film è questo oggetto enigmatico, architettato in forma di puzzle, costruito al fine di produrre non un senso, ma più sensi contrastanti. È l’ultimo approdo di Zulawski, al momento in cui le ossessioni carnali ormai si sono trasformate e celate in quella foresta intricata di simboli indecifrabili chiamata vita.
Filmografia di Andrzej Zulawski
Diabel (1972)
L’importante è amare (L’important c’est d’aimer) (1975)
Possession (1981)
Amore balordo (Amour braque) (1985)
La sciamana (Szamanka) (1996)
La fidélité (2000)
Cosmos (2015)
Filmografia
Teorema (Pier Paolo Pasolini 1968)