Vincenzo Buccheri

alt«Il cinema è l’arte del vedere»: così sentenziava, in un indimenticato finale, la wendersiana proprietaria del cinema Wei e Wand. Truismo indiscutibile, certo, ma come tale tutt’altro che irrilevante al nostro scopo (al di là delle usurate diatribe sul vario ed eventuale specifico cinematografico).

Se il cinema è l’arte del vedere, dunque, ben vengano film come questo di Kieślowski, ch’è a un tempo piacere degli occhi e saggio sul vedere, vertigine visiva e teoresi sull’immagine e sullo spettatore (un po’ come tutti i film, insomma, obietteranno con ironia gli avversari dell’autoreferenzialità oggi così in voga: ma non lo diceva già Truffaut che ogni film porta con sé, inevitabilmente, una certa idea del cinema unitamente a una certa idea della vita?).
Qui si cercherà di mostrare come questo film rapinoso, sfuggente, misticheggiante, sia poi anche un acutissimo saggio sulla natura (duplice?) della “vera” immagine cinematografica e sul diverso (duplice?) atteggiamento dello spettatore di fronte a essa. Nella parte conclusiva, poi, si vedrà come l’intervento dell’autore nel finale, apparentemente risolutore, sia in effetti ben poco risolutore, anzi diciamo avventato e un poco semplificatorio, benché poi riassorbito nell’ultima (“Vera”) immagine del film.


A voler fare dell’esegesi da dibattito, da cineclub, si potrebbe cominciare dicendo che già il nome della protagonista è di per sé aiuto irrinunciabile, indiscutibile parola-chiave, Veronica, infatti, vale (rietimologizzato) Vera Icona, ossia Vera Immagine, con riferimento, naturalmente, all’immagine “vera” per eccellenza, quella del volto di Cristo raffigurato sopra un’antica icona bizantina.
A proposito si vedano due auctoritates cui raramente si ricorre in ambito cinematografico:

Qual è colui che forse di Croazia
viene a vedere la Veronica nostra
che per l’antica fame non si sazia,
ma dice nel pensier, fin che si mostra:
«Signore mio Gesù Cristo, Dio verace,
ora si fu fatta la sembianza vostra?»
(Dante, Paradiso XXXI, 103-108)

E viene a Roma, seguendo il desio,
per mirare la sembianza di colui
ch’ancor lassù nel ciel vede spera[...]
la disiata vostra forma vera
(Petrarca, Rerum Vulgarium Fragmenta XVI, 9-11 e 14)

Innanzitutto si dica, parenteticamente, che la presenza di Dante è tangibile anche altrove nel film (a un altro livello, indubbiamente, ma pur sempre indice di singolari convergenze): la bellissima musica composta da Preisner è cantata da Veronica proprio sulle parole del Paradiso dantesco (è il secondo Canto, esortazione-proemio: «O voi che siete in piccioletta barca,/desiderosi d’ascoltar, seguiti/dietro al mio legno che cantando varca [...] L’acqua ch’io prendo, giammai non si corse»). Non è strano che la versificata introduzione al viaggio oltremondano sia riecheggiata in quello che è, a tutti gli effetti, viaggio al di là del visibile, ricerca allo stesso tempo di connessioni impalpabili e di nuove modalità della visione? È dunque anche quella di Kieślowski dichiarazione di poetica, programma, manifesto di un’ars nuova e difficile?

Ancora: non è strano che tanto Dante (in questo passo) quanto Kieślowski (in tutto il film) si rivolgano al lettore-spettatore con procedimenti variamenti interlocutori (l’apostrofo di Dante) o identificativi (le soggettive di Kieślowski), in ogni caso tendenti a sottolineare l’esistenza del canale comunicativo, a ritagliare una cosciente presenza del lettore-spettatore? Insomma, l’estemporaneo e pur utile parallelo ci aiuti a ricordare che l’audace analogia Dante-Kieślowski va al di là di una genetica koiné diciamo “mistico-metafisica” (lo sforzo di viaggiare-vedere al di là), conclusione cui, del resto, potremmo banalmente pervenire constatando che Kieślowski è in fondo autore anche d’una pur personalizzata versione del decalogo biblico: quello che invece ci sembra fondamentale è che entrambi gli autori si rivolgono a un’udienza programmaticamente “preavvisata”, e lo fanno per trasmettere una Verità “alta”, ardua che necessita di forme nuove e “difficili” per essere espressa.

altMa torniamo alla nostra Vera Icona: certo, in presenza di un film che parla del “doppio” (pur non essendo un film sul “doppio”) cos’altro si può spontaneamente osservare se non che tale “ icona” rimanda necessariamente alla nozione di calco, impronta, riproduzione (dell’una Veronica nell’altra, delle due Veroniche in “forma” uguale/diversa e così via)?

Può essere, ma noi incalliti cinefili che spieghiamo il cinema con il cinema preferiamo pensare a una soluzione “interna” al mezzo: l’icona in questione, l’immagine (“vera”, per giunta) non è, nel nostro caso, questa o quella raffigurazione di Veronica, questa o quella peculiarità della sua anima o della sua storia; piuttosto l’immagine cinematografica in generale, il mattone del film, il materiale “preliminare”, condizione prima è irrinunciabile («such stuff as dreams are made on»). Potremmo dire il significante, ma saremmo imprecisi, ché l’oggetto in questione non è qui inteso in senso tecnico-linguistico, bensì preso molto più alla lontana, genericamente: intuizione senza fondamento scientifico (né, tuttavia, trivialmente impressionistica).

Tutto questo partendo da una pseudoetimologia da cineclub? Il fatto è che, strada facendo, il discorso è venuto arricchendosi di risonanze impreviste. Si veda infatti come, in una recente conferenza stampa (“Mostra di Venezia”, 1991), il grande Godard, muovendo da premesse simili alle nostre, qualifichi da par suo la “quidditas” della “vera” immagine cinematografica (di fronte alle ben più banali, mute, false “pictures”):

Prendete un’immagine, ma cos’è che oggi chiamiamo immagine? In russo, ad esempio, ci sono due parole: c’è obraz, che è un po’ l’americano picture e che noi diciamo image, le foto che fanno i signori e le signore laggiù. Non sono certo immagini, sono pictures. E poi c’è una nozione di immagine che viene da lontano, dalla Bibbia. Come ho detto in Histoire(s) du cinema, e questo mi ha colpito dopo tanti anni di cinema, San Giovanni della Croce afferma che l’immagine verrà al tempo della resurrezione: sulla croce non c’è immagine. Gesù in croce secondo Giovanni è picture o obraz, al contrario l’immagine nel senso in cui lo intendevamo io e i compagni della Nouvelle Vague, Ejzenštejn, o El Greco, Dürer, sono gli occhi che salgono, e questo nessuno l’ha visto, è questo che si chiama immagine, la resurrezione di qualcosa.

Ci sembra di capire che qui Godard non si riferisce soltanto all’estetica peculiare di “certi” creatori di immagini (imperniata sull’uso “concettuale” del materiale iconico: si veda appunto Ejzenštein o proprio l’ultimo Godard). No, qua si sta fornendo soprattutto una nozione teorica (essenzialista, senza dubbio, tendenziosa, discutibile certo, eppure indiscutibilmente “forte”, affascinante), un’idea “filosofica”, insomma, del cinema e delle sue cellule costitutive. Distinguere l’immagine vera dalla comune fotografia, la miracolosa resurrezione dalla riproduzione piatta e volgare, significa fare un discorso ch’è a un tempo teoretico, morale e a suo modo “religioso” (così come può essere religioso Godard, ma è l’aura biblica della citazione che ci autorizza a osare). Anche qui, dunque, abbiamo qualcosa che non sapremmo definire tecnicamente, ma che tuttavia cogliamo in qualche modo intuitivamente, e vediamo talora attuata nelle prassi di certi film (come quello di Kieślowski) che, non rassegnandosi alla prosaicità meccanica delle faciture industriali, con coerente perseveranza cercano di battere vie inedite, cercano nuovi modi per “vedere” e “farci vedere” di più e meglio: in una parola, riscattarci dall’uso indiscriminato di abusare e inerti “fotografie”.

Dunque tirando le fila del discorso, da una parte abbiamo nozioni intuitive ma effettive (l’immagine “vera” e quella “falsa”, la resurrezione cinematografica del visto e del vissuto, la tensione verso un riscatto della visione decaduta), dall’altra parte, invece, in un ambito che curiosamente si infittisce di richiami mistico-religiosi (la Veronica medievale, S. Giovanni della Croce, l’opposizione Cristo morto/Cristo da risorgere), vediamo snodarsi un discorso confusamente teorico e che, proprio in virtù di siffatte auctoritates, diviene programmatica e “morale” presa di posizione sul senso e sull’uso del cinema.

La prima Veronica “vede” molto, e forse vede al di là, ma il suo è un punto di osservazione parziale e limitato, quasi un rifiutarsi di guardare le cose come sono. Difatti si lascia vivere: presentisce (la malattia, la fragilità del suo stato, la presenza dell’altra), ma non rinuncia a proseguire, a mettersi in scena, a cantare. E cantando muore.

La musica ha la stessa vibrante, aerea levità delle soggettive “liquide”: è un tentativo di sublime, e la voce di Veronica è anomala, dolce e ammaliante come gli sguardi che dispensa. La morte in soggettiva ci sbigottisce dapprima con l’incrinarsi dell’armonia, l’arresto del canto, poi con uno sguardo grandangolare che si abbatte sull’assito del palcoscenico e vi rimane (come di chi muore a occhi aperti o di chi morto non è ancora: quello sguardo rovesciato che segue, in rapido volo sulla platea, come di un’anima in fuga...). Ancora una soggettiva, claustrofobia e insostenibile, nella scena della sepoltura: manciate di terra cadono sul vetro della macchina da presa fino a oscurare lo schermo e chiudere la prima vita di Veronica.

altSe è vero che la soggettiva è la forma di sguardo dell’identificazione spettatoriale, questa prima Veronica è una meravigliosa sorta di spettatore: quello che, pur in mezzo al dolore, di fronte alla morte, si lascia affascinare dalle forme, dai suoni, dai colori: l’anomalia del suo vedere (ch’è tutto un fluire, un rifiutarsi di fermarsi sulle cose per collegarle, interrogarle, capirle) da un lato lo eleva verso l’ebrezza felice della trasfigurazione, dall’altro lo condanna alla sconfitta, a morte irrimediabile. Una morte sublime, però: in scena, durante lo spettacolo.

La seconda storia si svolge all’insegna di un presentimento d’assenza: ci sono fili da riannodare, vuoti da colmare, ed è questo impegno ostinato ed esclusivo a salvare la seconda Veronica da una fine analoga.

La seconda Veronica “vede” meglio. Rispetto alla prima è più decisa e al contempo più cauta, riflessiva (la prima è giovanilmente indecisa: «Cosa voglio veramente?», dice; la seconda dichiara di sentirsi sempre indubitabilmente guidata al miglior da farsi, e in nome di questo istinto compie quei gesti minimi che la salvano: la rinuncia alla musica, al talento, l’esame cardiologico eccetera). Ma sopratutto il suo miglior vedere le è imposto dalla stessa funzione che ha scelto di assumere su di sé: quella di ricercatrice, “detective”, rivelatrice di corrispondenze invisibili e a lei stessa inspiegabili.

Molte le prove a sostegno:

  • Innanzitutto lo stato delle sue soggettive: meno numerose, tanto per cominciare, e poi più nitide, neutre, nella norma. La seconda Veronica sceglie di guardare in faccia le cose, rinunciando all’incanto della “visione immaginifica” in nome di una verità (o di un meccanismo perlomeno, una traiettoria) da scoprire dietro il mondo. La seconda Veronica “vedrà” come la prima soltanto dal nascondiglio dietro la porta a vetri, per sfuggire ad Alex (il “filtro magico” come protezione dal contatto?), oppure nella prescienza dei sogni, là dove, forse, riceve segnali dall’“altro”;
  • poi la seconda Veronica, curiosa e incuriosita, sceglie di collazionare e decrittare i geroglifici dell’occhio e dell’orecchio; si veda la straordinaria sequenza in cui insegue e rintraccia Alexander ricostruendo la collocazione, l’ordine, il senso di un’accozzaglia di rumori su nastro magnetico (il riscatto di Blow-up attraverso Blow-out?). La seconda Veronica osserva deduce scopre, rivestendo un ruolo che all’altra non interessa per nulla;
  • Infine, enormemente interessante è pure la modalità di visione con cui le due Veroniche giungono a scoprirsi l’una all’altra. La prima vede il suo doppio all’aperto, sulla piazza di Cracovia: riconoscimento immediato, diretto e spontaneamente felice, com’è nella natura della prima ragazza. La Veronica polacca sorride a vedere confermati i suoi oscuri e trascurati presentimenti: ora sa perché non si sentiva sola. La Veronica francese, invece, non sfrutta fino in fondo la possibilità di quell’incontro, tutta intenta com’è a fotografare gli eventi, a procrastinare in un futuro prossimo l’analisi (fredda, minuziosa, riflessiva) di ciò che le scorre davanti. Difatti proprio in una foto (ch’è anch’essa reperto, traccia, “deduzione” della realtà) la seconda Veronica avrà la rivelazione. Il suo pianto, allora, sarà il contraltare del riso dell’altra: e per sanare la solitudine (presentita e confermata) della lacerazione, sarà già vicino a lei Alexander, l’amore a portata di mano.

Il finale è il momento più esplicito, quello in cui, cercando di districare il garbuglio, Kieślowski scende in campo e riesce solo a porre uno specchio davanti al gomitolo: semplifica, ridispone, raddoppia le misure, ma non fa che ripetere in scala ridotta il già detto. Quali gli argomenti, le tracce? (Anche a noi, come a Veronica, spetta discernere gli indizi, rintracciare corrispondenze, distillare un magma sonoro.

  1. Il lungo piano sequenza attraverso il corridoio, fino al laboratorio di Alexander. Sembra una soggettiva di Veronica (una delle innumerevoli del film, e una delle poche insolitamente nitide, “pulite”, senza schermi, vetri, rovesciamenti); invece è una semisoggettiva: Veronica entra in campo da sinistra. Segno che K. Rinuncia identificarsi totalmente con Veronica, riesce a staccarsi da lei al momento giusto (e sa vedere meglio di lei: cfr. La cristallinità dell’inquadratura, il suo agire in penetrante profondità). Insomma, segno che K. Vuole dire la sua. Difatti:
  2. Alexander/demiurgo/doppio di K. (personaggio che non cerca: si fa cercare, non decifra: lascia segni; non si arrovella: intuisce cercando, fors’anche involontariamente) diviene il perno, il motore immobile di una metalinguistica “enunciazione simulata” (e non paia una forzatura: ogni film ama inevitabilmente parlare di sé). Cosa fa, infatti, Alexander? Mette in scena un doppio del film (dell’enunciato che lo ospita) agendo sulla doppia banda del visivo e del sonoro (o della scrittura). Ossia: da un lato mostra le sue marionette e le fa vedere a Veronica, incitandola anzi a riconoscersi in esse, a provarne l’uso, capirne il funzionamento (e questo è il visivo, la messa in scena, lo spettacolo). Dall’altro lato (lui che è uno “scrittore”, oltre che burattinaio e mossiere d’esseri umani) legge a Veronica un suo breve racconto, le narra una storia ch’è la sua storia (con qualche modifica, certo, qualche sfasatura, aggiustamento; ma è così che funzionano le storie, ed è così che funziona il film: corrispondenze nella diversità, diversità nelle corrispondenza). Una storia, quella, che nella sua semplice, secca brevità, ambisce a diventare succo, epigramma, “disvelamento”: necessario, forse, agli occhi premurosi di K. Più che ai nostri (improvvidi occhi di spettatori).
  3. Vediamo, infine, l’ultima considerazione. K., infatti, suggella propria entrata in scena (un po’ goffa, forse, e comunque troppo programmata) con un movimento di macchina ch’è indubitabilmente “presenza forte”, intervento deciso, firma. La macchina da presa, già fissa sui due personaggi e sulla figura della marionetta “viva”, lentamente, ingiustificatamente, scende a inquadrare la marionetta gemella “morta”, lentamente, distesa sul tavolo da lavoro. Beninteso, non è questo l’unico intervento “autoritale” nel corso del film: anzi. Solo che questo voler tirare le fila a tutti i costi, questo guidare il nostro occhio a contemplare una messa in scena “seconda”, alla quale, peraltro, già due volte avevamo assistito (la prima volta come spettatori del film in sé, la seconda come spettatori del precedente spettacolo di marionette, anch’esso autoreferenziale), insomma, questo cercare corresponsioni non più all’interno della storia, ma tra la storia e se stessa, ci delude un poco, ci pare semplificatorio.

Forse preferivamo quando K. ingarbugliava e, se interveniva, era per complicare, deformare, ingrandire, rimpicciolire, rovesciare. Forse ci infastidisce l’idea che la spiegazione veramente offertaci, per quanto oscura, oracolare, implichi un senso è una giustificazione, laddove, magari, ci piaceva l’idea che tante perle sparse non trovassero un filo. Forse (ma questo già ci affascina) abbiamo pensato che anche il film, messo davanti a se stesso, potrebbe scoprire un suo doppio, un sosia, un film parallelo, tra i film che già abbiamo visto o che non vedremo mai.

Fortuna che nelle ultime inquadrature (queste il vero finale, e non irrisolta “coda” pletorica) torna il mistero, la musica.

Veronica tocca l’albero. Il padre indugia e si volta: “sente” (la musica? O non piuttosto l’ennesima corrispondenza intangibile tra due esseri sullo stesso suolo nudo?).

La mano di Veronica è sulla corteccia.


Vincenzo Buccheri (Savona 1970 – Milano 2009) è stato critico cinematografico e professore di Storia e critica del cinema all’Università di Pavia. Redattore di «Segnocinema», ha fondato e codiretto la rivista «Brancaleone». Quello qui proposto, per gentile concessione dalla casa editrice Il Castoro (il saggio fa parte della raccolta La scienza del sogno. Scritti critici 1992-2009), è il suo primo testo pubblicato, che gli valse, nel 1992, il Premio Adelio Ferrero per giovani saggisti di cinema.


Bibliografia

Buccheri V. (2010): La scienza del sogno. Scritti critici 1992-2009, Il Castoro, Milano.


Filmografia

La doppia vita di Veronica (La double vie de Véronique) (Krzysztof Kieślowski 1991)