Pietro Masciullo

altStrano oggetto filmico questo Sils Maria. Sfumato, sfuggente, informe, proprio come quelle nuvole impassibili in cui più volte scioglie il suo punto di vista. Olivier Assayas, cineasta tra i più consapevoli, ha bisogno periodicamente di tornare a riflettere su se stesso e sul cinema (Demonlover), sulle persone che lo animano (Irma Vep) o sulla scintilla nascosta che lo origina e può ancora giustificarlo (questo Sils Maria). L’attrice/star interpretata da Juliette Binoche è colta subito in viaggio, su un treno, nel più classico topos di movimento che il cinema ricordi. Ed è su quel treno che viene a sapere della morte del suo talent scout, un anziano regista svizzero che stava andando a trovare e che l’aveva fatta esordire diciottenne e inesperta. La morte del “regista” provoca un terremoto emotivo nella sua “musa”: un trauma, la messa in dubbio improvvisa del suo statuto d’attrice, artista, persona. Tutto molto “classico”, è vero.


Il film però (strutturato come un romanzo, due parti e un epilogo) configura la lenta e sofferta riappropriazione dell’esperienza in un reale dove la frase ricorrente diventa “check on Google” (sin troppo ripetuta dai personaggi). Si parte appunto dall’eclisse di ogni referente emotivo o relazionale, sciolto in una babele di schermi che intasano lo sguardo delle protagoniste (Demonlover è dietro l’angolo) e mettono in profonda crisi una Star da sempre abituata a fare i conti con la propria immagine. Qui la svolta: il ruolo offertole nella nuova trasposizione della pièce che la rese famosa - non più nella parte della giovane e disinibita diciottenne interpretata ora dalla sensualissima Chloë Moretz, bensì in quella della depressa quarantenne Helena - innesca un perturbante processo di identificazione.

Assayas si ricorda della sua primigenia passione per Bergman e ri-mette in scena un confronto, di persona, tra due donne (Binoche e l’assistente tuttofare Kristen Stewart) che in una casa in cima alle Alpi provano incessantemente la pièce. Due sceneggiature pian piano collidono: quella scritta su carta, dimenticata e trascesa, e quella della vita che irrompe, si sovrappone e domina gli eventi come in Ibsen o nel discepolo filmico Bergman. L’imponente paesaggio montuoso di Sils Maria diventa allora un luogo “fuori dal tempo”, persino fuori da Google, che impone l’emersione di una memoria sentimentale per essere compreso e domato nella sua vastità. Le linee serpentine disegnate da quelle cime, ricolme di un fiume di nuvole dove Assayas immerge contemplativo la sua macchina da presa, restituiscono tutto il potenziale crudo e arcaico di un cinema che non vuole arrendersi all’odierna unidimensionalità dei caratteri.

Insomma il cineasta che meglio ha configurato la passione cocente e bruciante dei suoi protagonisti diciottenni, con i ricorrenti falò a la plage e le primigenie pulsioni che muovono istintivamente l’inquadratura, orchestra ora una lineare e senile suite che solo apparentemente non lascia spazio al respiro del (suo) cinema. Il percorso di riappropriazione dell’identità di Maria, infatti, è costellato da moti sotterranei e invisibili che premono sul visibile e aprono infinite vie di fuga tutte potenziali: questo film non è per nulla il deludente raffreddamento di un impeto registico, bensì il suo controcampo riflessivo e diamantino. Assayas parla apertamente di se stesso: l’idea del film, nata vent’anni fa insieme alla Binoche sul set di Rendez-vous di Téchiné, è maturata nel corso del tempo parallelamente alle carriere internazionali di entrambi. Ci si rifugia in un ricordo privato e si tenta di rimanere puri facendo ancora cinema: Maria si ricorda diciottenne come una perfetta protagonista di un qualsiasi film di Assayas e arriva quarantenne a chiedere solo uno “sguardo di complicità” per il suo personaggio. Un momento, un frame, il cinema, un cristallo di vita.

Sils Maria è veramente come le sue nuvole: fuori dal tempo e immerso in umori di un’autorialità totale, sincera e anacronistica che cozza con il presente in fulminea mutazione (ben interpretato dalla giovanissima Moretz che appare incredibilmente differente in ogni sequenza colta su Youtube, sul grande schermo o faccia a faccia, da vero essere mutante). Un film non facile e a volte sgradevole, difficile da trovare sotto le sue superfici, ma terribilmente necessario e amabile per chi sente ancora il cinema pulsare nelle vene. Ecco: Olivier Assayas è di nuovo pronto per uno dei suoi tanti falò di vita, magari nel prossimo film, magari tornando ancora diciottenne…