Filmare il lavoro. Un’utopia, l’unica cosa che conta davvero per Daney. A modo suo, Assayas prova a fare un film “comunista”, non alla maniera di Straub, né tanto meno di Godard. No. Lui s’installa al centro del cinema. Prende due corpi d’attrici, e come in uno specchio bergmaniano, mette in scena un serrato dialogo ibseniano, e scava una vertigine invisibile, che si potrebbe persino confondere per un cinema di retroguardia.
Eppure è il piacere del gioco a fare la differenza del film di Assayas. La manifattura del lavoro delle inquadrature, improntate a un paradossale modernismo classicista, tenuto insieme dai punti di sutura di un montaggio invisibile, mette in scena una fragilità del pensare il cinema che, nel caso di Assayas, uno dei pochi oggi a vantare una formazione teorica solida, assume una toccante notazione resistenziale. Volutamente apollineo nel suo gioco di maschere e scene che si sovrappongono, come se il mondo fosse stato eroso dalle immagini (meglio: dai simulacri delle immagini) tenta di ipotizzare un ritorno del cinema stesso, scegliendo come luogo della narrazione il set dove l’epifania dell’eterno ritorno diventa il cardine del pensiero di Nietzsche.
Come le nuvole di Fanck trascolorano in quelle di Assayas, si resta come sospesi. Non più vita, non più cinema. Una terra di mezzo. Una scena. Fatta di specchi. Superfici sulle quali preservare quanto ancora resta della nostra immagine, attestato di identità incerto, come il cinema di Assayas che prova a chiedersi ancora cosa sono le nuvole.