altFanno pensare alla rivoluzione islamica in Iran le immagini di Eau argentée, Syrie auto-portrait di Ossama Mohammed e Wiam Simav Bedirxan, alle descrizioni in ricostruzione della violenza che si è consumata sulle strade delle città e nel cuore profondo dei suoi abitanti. Così le abbiamo immaginate, così le abbiamo viste nei film, così le abbiamo lette nei romanzi. Gli spari, la paura, la gente, il sangue. E il buio. Solo che questa volta verrebbe da dire “è tutto vero”.


Mille e una immagine, mille e una storia, mille e un regista. In questo film, fatto solo di immagini necessarie, filmate direttamente dai partecipanti alla rivoluzione, si racconta una storia che nasce dentro le barricate, una storia che riguarda tutti, che si moltiplica davanti ai nostri occhi e si ricompone ad ogni istante. Non mente il titolo che parla di autoritratto, quindi, perché la maggior parte di quello che si vede è tratto da YouTube, Facebook o filmato dalla regista curda Simav Bedirxan, che si muove in una Homs ormai fatiscente ma resistente. E non importa se a tratti non si distinguono i contorni di ciò che si vede. “E fu il cinema” avvisa Ossama Mohammed mostrando la scena di un bambino che viene al mondo. Il cinema nasce e dilaga lungo le strade di Der'a, dove hanno inizio la violenza e la ribellione, e si espande a Douna e infine a Homs, dove il film finisce. Occhi aperti per accompagnare la rivoluzione. Gesto teorico coraggioso. Atto di volontà pura che, però, non può che scontrarsi continuamente con il dato di fatto. La realtà dell’uomo che uccide l’uomo. Del fratello che tortura il fratello. La Storia davanti ai nostri occhi si dipana attraverso cellule di storie, mille volti, mille voci e gatti e cani e cadaveri trascinati via dalle strade con uncini e lazzi improvvisati. Non si era mai visto un film tanto intimo nato dalla rielaborazione di fonti eterogenee. Nulla è retorico, nulla è esibito. C’erano anche i nostri occhi laggiù e ci sono dentro lo schermo. Il cinema nasce e rinasce. Lo ripete il regista che da Parigi, in esilio, segue il suo paese distruggersi e, appunto, rinascere. Manca il coraggio ai siriani che se ne sono andati, dice, perché si nascondono in un’oscurità che, al contrario, non conoscono quelli che sono rimasti.

Il tempo passa e le bombe, il frastuono dei proiettili, le urla della folla, lasciano il posto ad un silenzio terrificante, edifici distrutti, strade invase di macerie. Segni di una guerra che sembra divorare le cose più in fretta di ogni pensiero, mentre proseguono le lotte e le torture senza voce, aumenta il numero dei morti e il tradimento si consuma ogni giorno ad ogni angolo. Impossibile definirlo documentario. Diario di un viaggio all’inferno che termina nelle mani di un bambino e della sua breve corsa nei luoghi irriconoscibili della sua città. Saranno suoi gli occhi del futuro, a lui i due registi sembrano voler consegnare lo spirito e la forza della nuova Siria (mentre il mondo sembra non accorgersi, negli anni, di questa tragedia). Ecco che il cinema si fa desiderio di rinascita quando, all’improvviso, Simav, si fa mandare da Parigi “qualcosa per salvare l’anima della nostra gente” quando un altro bambino viene ucciso. Le arriva Charlot boxeur e la donna lo mostra ai bambini.