EdgarReitzIntervista di Giampiero Raganelli a Edgar Reitz già comparsa su Internazionale.

Dopo la monumentale saga di Heimat, in tre parti più Heimat-Fragmente: Die Frauen, il regista Edgar Reitz torna nell'immaginaria cittadina di Schabbach per ambientarvi un film, Die Andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht, che si svolge antecedentemente al primo Heimat, nell'Ottocento. Protagonisti due fratelli che anelano ad andarsene dal villaggio.
Abbiamo incontrato il regista durante la 70° Mostra internazionale d'Arte cinematografica, in cui il film è stato presentato.


Anche in questo film, come nella precedente trilogia di Heimat, c'è una scissione in alcuni personaggi, tra la propria heimat di appartenenza, e una tensione all'emigrazione, alla ricerca di una nuova terra, che in questo caso è rappresentata dal Brasile e dal Nuovo Mondo, che fu la destinazione di un esodo forzato dei poveri contadini e artigiani tedeschi a metà Ottocento. Qual è il suo concetto di heimat?

All'inizio di tutto questo c'è una parte mia biografica. Io stesso sono cresciuto in una zona rurale, in un piccolo paese e per potermi realizzare, per seguire il mio interesse cinematografico – lì dov'ero non avevo nessuna possibilità – sono dovuto emigrare in una grande città. E questo è lo stato di molte persone che vivono nelle grandi metropoli, conglomerati di persone che son venute per poter realizzare i propri interessi e sogni.
Facendo il percorso di questa realizzazione personale mi son dovuto rendere conto a un certo punto, e soprattutto in questo mondo caratterizzato dalla competizione e dalla concorrenza, che trovando qualcosa, realizzandoci, abbiamo al contempo perso qualcosa. Questo dolore della perdita è una dimensione psichica della provenienza. Il concetto di heimat è un mondo senza parole, un mondo che non si può spiegare, un mondo emotivo, interiore. Per cui, per quanto guadagniamo, da un lato, e riusciamo a raggiungere i nostri obiettivi, dall'altro, perdiamo ciò che portavamo con noi dalla nascita. C'è un dolore che nasce da questa dicotomia, tra quello che riusciamo a guadagnare e quello che perdiamo.
Da questa ambivalenza, dal guadagnare libertà e perdere allo stesso tempo una dimensione interiore, nasce il mio interesse verso il concetto di heimat, al quale non credo ci sia una risposta intellettuale, ma solo una risposta che si può esprimere artisticamente.

L'interesse di uno dei protagonisti, Jacob, per la lingua dei nativi dell'America del Sud rientra in questa tensione verso altre culture, anche lontane?

Storicamente l'alfabetizzazione del popolo tedesco, attraverso l'obbligo scolastico, risale a dopo Napoleone, nel 1815. Questi ragazzi, che nel 1815 avevano cinque o sei anni, rappresentano la prima generazione che ha letto libri, che ha potuto studiare senza appartenere a un'élite aristocratica o a una classe più intellettuale. E queste prime ondate di immigrazione tedesca sono riconducibili a questa alfabetizzazione postnapoleonica.
Ciò che all'epoca succedeva, la possibilità di poter leggere, tutto d'un tratto, libri e giornali, è paragonabile a ciò che è oggi la diffusione delle informazioni attraverso la televisione e internet. Molte delle grandi ondate di immigrazione del giorno d'oggi sono date dal fatto che ovunque è ottenibile un'informazione, ed è un miscuglio di cultura, sapere e fantasia o proiezione di ciò che uno estrapola da queste informazioni che riesce a ricevere. In questo senso queste immigrazioni di massa hanno questa stessa caratteristica.

Come mai dopo la trilogia ha deciso di tornare ancora a Schabbach, in quel villaggio immaginario e al suo universo, per realizzarvi un prequel?

Il ciclo di Heimat per me è effettivamente chiuso, non considero questo film un prequel. È un film assolutamente autonomo e indipendente, non fatto per la televisione, ma pensato per il grande schermo. Sì, è ambientato nello stesso luogo, ma ha una vicinanza culturale più che strutturale.

Una questione formale. C'è un senso di galleggiamento, di fluidità della macchina da presa per tutto il film, evidentemente realizzato con l'impiego della steadycam. Che effetto voleva raggiungere?

Il concetto visivo del film è esattamente questo. Volevamo un film che non avesse gravità che fosse appunto galleggiante. Che rispecchiasse questo mondo in qualche modo fantastico. Ci sono vari indizi dove si vede questo, per esempio quando Jacob cade dall'albero e non si fa male. C'è una sospensione.
In tutto il film effettivamente non si è mai usato un cavalletto. Tutto è stato girato in steadycam o con una grossa gru.

E invece ci può dire qualcosa su questi dettagli a colori, nel contesto di un film in bianco e nero?

È chiaro che questo è un film in bianco e nero. Se si potesse dire, è un film in bianco e nero a colori. Ci sono dei piccoli momenti, come appunto la parte blu, la bandiera che simboleggia la libertà, il ferro di cavallo rovente, molto emotivi che non si potevano rendere se non attraverso il colore. È una cosa che ho già sperimentato varie volte negli altri film di Heimat. Per me è una cosa molto importante la libertà di poter usare il colore quando penso sia necessario ed è un elemento poetico.

Come concepisce il rapporto tra la Storia e le storie degli uomini, il racconto, la narrazione che si inseriscono nella storia della Germania?

Questa è la domanda delle domande, la domanda della mia vita. Per dirla brevemente, la Storia è un'astrazione, è oggetto di ricerca scientifica e si allontana dalla vita vissuta, ma ci permette di dare una spiegazione a degli eventi storici, che hanno portato avanti o indietro il mondo. Io non sono uno storico e non comprendo la vita in questi termini. Per me la Storia sono le piccole storie. È l'unico modo che io ho di capire ciò che mi circonda, di capire il mondo e di capire perché le cose siano come sono.

Nel film compare, in un ruolo cammeo, il regista Werner Herzog, impegnato in un dialogo proprio con lei. Ci può dire com'è nata questa scena e perché ha deciso di scritturare il suo collega?

Il personaggio di Alexander von Humboldt non è un ruolo che qualsiasi attore del mondo avrebbe potuto fare, anche perché non è un ruolo che si possa elaborare. È talmente breve che è un'esistenza spirituale che si materializza in quel momento. Ho cominciato a chiedere a tutta una serie di colleghi e ho scritto una mail anche a Herzog in California, che mi ha subito risposto. Era disponibilissimo e anzi tre giorni dopo era in Germania. La sua unica condizione per fare quel ruolo è stata che avrei dovuto esserci anch'io nel film. È un piccolo confronto tra la finzionalità e la storia, che a me è piaciuto molto. Lui passa e mi chiede «Che luogo è questo?» e io rispondo «È Schabbach». Un passaggio dalla finzione alla realtà anche come citazione cinematografica. Una bella autocitazione.