alt«[...] La filosofia, com'è stata prodotta e nutrita dalla poesia nell'infanzia del sapere, e con essa tutte quelle scienze che per mezzo suo vengono recate alla perfezione, una volta giunte alla loro pienezza come altrettanti fiumi ritorneranno a quell'universale oceano della poesia» (F. Schelling, Sistema dell'idealismo trascendentale)


A parte le visioni (alcune ineffabili) tra Roma e Torino (German, Pirselimoglu, Gonçalves, Jonze, Soldat, Locatelli a Roma; Rondòn, Betbeder, Serra, Brzezicki, Gordon Green, Baumbach a Torino), i festival servono anche a fornire degli indici di inferenza sulle modalità di fruizione di certo cinema: un pubblico critico, formicolante negli interstizi delle sale e in ansia da prestazione, che freme dopo l'ultimo titolo di coda, per dire la vacuità di quel film italiano e la lentezza esilarante del portoghese, ecc.; ma anche, anzi, soprattutto, un'ampia e sfaccettata trama di "addetti ai lavori", collezionisti e collazionisti di film, pronti a saggiarne meticolosamente, specialisticamente, la tenuta narrativa, i procedimenti, la loro qualità tutta esteriore (e non implicitamente cinematografica, cioè oltranzista) di film, prodotto. Uno specialismo da dissezione, da collazione rispetto a un calco di rendimento e bilanciamento narrativo (come se la narrazione abbia valore in sé e non invece rispetto a quello che può dire oltre i suoi meccanismi costitutivi) che è, alla fine, necrofilia, nerdismo di quelli che non conoscono altro orizzonte che quello merceologico-cinematografico e che si nutrono solo sempre dello stesso pasto, perdendo così, per abitudine, il senso, il sapore del cibo: come se dietro la dissezione chirurgica (e ce lo insegnano non tanto i ponderosi manuali di anatomia, quanto, tra gli altri, proprio un film appassionato come Vital di Tsukamoto) non ci sia poi l'obiettivo di conoscenza ed esaltazione della vita. Così, lambiccando e considerando in estasi da téchne il film (ma una técne tutta domestica, d'accatto), il cinema è morto da un pezzo (e si decompone) quando il critico (parola orrenda per designare un mestiere illegittimo) ha finito il suo lavoro.

Per quanto ne so il cinema è tale se fornisce i mezzi per essere esaltato (dalla critica, sic.) in tutta la sua estetica dialettica, e quindi per andare oltre di sé, per dire altro da sé come categoria artistica. Allora non è il cinema che conta, come constatazione della propria perizia interna di facimento, quanto la vita (pulsante, spasimante, declinante) contenutavi ed esaltatavi come continuo istinto di sfacimento, superamento (del cinema), sequenza dopo sequenza. Quella che Schelling chiama Poesia (non i versi uno sotto l'altro, ma i Sensi, uno dentro l'altro), caricando di significato estetico (ontologico) l'esistenza, verso cui (l'oltranza appunto) ogni arte (ogni specialismo) deve tendere per essere sé stessa nella misura di un superamento della propria riconoscibile (classificabile) fisiologia.

Perciò ogni discorso sul cinema non può che essere discorso sulla sua presunta, auspicata poeticità-vitalità, discorso sulla sua alterità, alterazione (cioè movimento più in là da sé, dalla sua complessione icastica), discorso su altro (sulla dialettica intrinseca all'immagine stessa), essere discorso altro, che si disinteressa del cinema come téchne sempre uguale (statica, mortifera) e focalizza l'attenzione su quell'oceano primigenio da cui ogni arte (o scienza) deriva: la Poesia, non intesa in senso metafisico, bensì come caos, «folle libertà» (come la chiama Wackenroder), apertura «da cui tutto è uscito e in cui tutto deve rifluire».

A questo punto, giunti al nostro terzo anno, e dopo un continuo interrogarci sull'utilità, necessità di una rivista di cinema, possiamo dire che ce ne fottiamo del cinema (e degli specialismi, anche quelli letterari, filosofici, teatrali, musicali, ecc.) e apriamo al teatro, alle serie televisive, alla musica, cioè ad altri discorsi sullo stesso tema, per poter tornare poi al cinema, puramente, in quanto “oceano poetico”, spazio entro cui passano in tutte le direzioni le mutevoli significazioni dell'universo (Deleuze, ancora); apriamo cioè ad altro che discute su di sé, sulla necessità (vitalità), la poesia come Senso d'esistenza.