altQualche anno fa, Antonio Tabucchi, nel «tentativo dissennato di spiegare a un amico una parola indefinibile», scrisse una lettera destinata a Remo Cesarani: «Ebbene, caro Remo, proverò a cacciare con un retino questa parola beffarda e svolazzante come le farfalle che Nabokov notoriamente acchiappava a Luino, e di spillarla al lemma che le compete» (Tabucchi 2013, p. 56).


Questa parola, termine chiave di tutta la lingua e la cultura portoghese, impossibile da tradurre in un idioma diverso, riflette uno stato d’animo, un sentimento che appartiene al popolo lusitano, che lo definisce e lo imprigiona allo stesso tempo: questa parola, naturalmente, è saudade.
Tradizionalmente1, la saudade è associata alla malinconia causata dal ricordo di un bene del quale si è privati; al dolore provocato dall’assenza di qualcuno o dell’oggetto amato; al ricordo dolce e simultaneamente triste di una persona a noi cara; alla nostalgia, o come suggerisce Tabucchi, al “desìo” dantesco, «che nello strazio reca una tenera dolcezza» (Ivi, p. 58). Qualcosa di intimamente legato al passato, dunque. Ma non solo, la saudade è qualcosa di più complesso. Come disse Manoel de Oliveira, «significa che l’armonia si realizza con l’aiuto dei sentimenti contrari» (de Oliveira in Diana 2001, p. 9). Secondo il grande maestro del cinema portoghese la parola «intraducibile nel mondo attuale, (…) viene voglia di tradurla con “speranza”. Una speranza metafisica, filosofica, religiosa nel senso più ampio. Come una speranza dell’al di là, di un’altra vita, come l’evocava Nietzsche, la speranza in un futuro che non conosciamo. Qualcosa che sta tra la disperazione che si prova nel mondo e la terribile voglia di vivere» (Ibidem).
La saudade, allora, come condizione dell’animo in cui coesistono nostalgia e speranza, morte e vita, desiderio di tornare e desiderio di andare, due (falsi) movimenti antitetici che tuttavia scorrono paralleli.

Con Tabu di Miguel Gomes la saudade diventa cinema. Non a caso la prima immagine del film cela al suo interno una contraddizione: un esploratore immobile. Ma è l’intera pellicola a essere costruita su di una chiara dialettica oppositiva: la narrazione, scissa tra presente e passato; il genere, in bilico tra melodramma e agrodolce commedia; il bianco e nero, che di per sé comporta già un contrasto; il formato, prima una pellicola da 35mm poi una più granosa da 16mm; il sonoro, inizialmente legato al dialogo, poi dominato dalla voce-off; fino alla struttura, che esplicita tale dicotomia, dividendo il film in due parti2, Paraíso perdido/Paraíso, e rievocando così, come già nel titolo, l’omonimo capolavoro di Murnau, film “spezzato” per eccellenza3. Ed è proprio in quest’ottica, e non per uno sterile “omaggio”, che il film del regista lusitano richiama l’opera (complessiva) di Murnau; poiché essa si fonda tutta su elementi contrapposti (luce/ombra, campagna/città, tragico/burlesco, …) che coesistono parallelamente all’interno dei film, senza trovare mai un’autentica riconciliazione, bensì piuttosto un equilibrio che ne permette l’esistenza. Tabu di Miguel Gomes, al pari di Aurora di Murnau, al quale pure rimanda il nome della protagonista, potrebbe essere una nuova «sintesi miracolosa, ancora capace di tenere insieme degli antagonismi multipli, nella sua maniera così come nella sua materia» (Aubron 2006, p. 82).

Paraíso perdido e Paraíso costituiscono frammenti autonomi che si generano reciprocamente, poiché il primo (il “presente”), se è logicamente effetto del secondo (il “passato”), ne costituisce però anche la causa, in quanto quest’ultimo viene ri-creato in una forma nuova che, paradossalmente, lo proietta in avanti. La seconda parte di Tabu non può essere considerata un flashback (non a caso manca il consueto “ritorno al presente” e il film si chiude nel “passato”), ma piuttosto quasi un sogno, un’immaginazione, di chi ascolta con occhi spalancati/chiusi. La transizione tra queste due (presunte) dimensioni spazio-temporali, d’altra parte, è molto meno brusca di quanto non possa sembrare a prima vista, quasi uno scivolamento in un altro territorio: il centro commerciale dove Pilar, Santa e il signor Ventura decidono di prendere un caffè prima di salutarsi, di per sé già un nonluogo4, un luogo di passaggio, è infatti uno spazio gassoso, invaso da una folta vegetazione tropicale, la quale anticipa l’ambiente africano che di lì a poco occuperà la narrazione. Si scorre, così, da una visione a un’altra nella quale la storia, ri-attivata dalla memoria, si confonde con l’immaginazione, ri-attivata dalla narrazione. In altre parole, se da un lato si soggettivizza, attraverso i ricordi in voce-off, qualcosa di “oggettivo” (la storia), dall’altro si oggettivizza, attraverso le immagini, qualcosa di soggettivo (l’immaginazione). Gomes sembra suggerire che non vi è altra oggettività se non quella (finta e illusoria) dell’immagine, del cinema: persino la Storia (con la ‘s’ maiuscola), che in Tabu è presenza vivida e invisibile5, viene ad un tratto ricondotta ad un gesto di pura finzione, di puro cinema: l’assassinio di Mario per mano di Aurora diventa, in questo modo, uno dei fatti determinanti per l’avvio della guerra coloniale.

La seconda parte di Tabu sembrerebbe filtrata, e così generata, dallo sguardo di qualcuno; uno sguardo malinconico e incantato, pieno di saudade. Non è un caso che la prima parte della pellicola prenda avvio in una sala cinematografica. Pilar è spettatore di un film del quale non viene mostrato nemmeno un fotogramma; manca il classico campo/controcampo che permetta di capire di che film si tratti; la mdp rimane fissa su di lei. Più tardi, in un’altra scena ancora una volta ambientata in un cinema, lo schema si ripete con l’aggiunta di un particolare: Pilar piange mentre (si) ascolta una canzone, Be My Baby dei Ronettes. Lacrime e musica torneranno più avanti, quando Aurora e Ventura, una lontana dall’altro, soffrono a causa del loro amore proibito. Con questo sottile espediente, Gomes suggerisce un collegamento non tanto (o comunque non solo) tra le due sequenze, quanto tra le due parti del film: Paraíso, come si ipotizzava, potrebbe essere una proiezione cinematografica alimentata dallo sguardo di Pilar, ovvero dallo sguardo di un sognatore, spettatore-desiderante.

Paraíso, dunque, è cinema che si re-inventa, che ri-nasce. Anche (e soprattutto) dal punto di vista formale: se da un lato, infatti, la vicenda raccontata non è che un classico amor de perdição, un eterno amore frustrato, dall’altro la maniera in cui questo viene rappresentato si rivela essere assolutamente originale. Non si tratta né di un rifacimento del cinema muto (Blancanieves di Pablo Berger), né di un pastiche postmoderno (The Artist di Michel Hazanavicius), ma di pura creazione di nuove immagini a partire da un immaginario comune (che, peraltro, comprende una porzione di cinema ben più ampia di quella ascrivibile al periodo del muto, includendovi, ad esempio, anche il cinema americano anni Settanta come quello francese anni Sessanta). E non si tratta neppure, come in Nuovo cinema paradiso, di nostalgia del cinema come paradiso ormai perduto. In linea con quanto si diceva prima, Gomes realizza il suo film con gli occhi spalancati/chiusi di chi guarda la realtà oltre la realtà stessa, procedendo per impressioni di cinema, piuttosto che per effimeri citazionismi, muovendosi, smarrendosi, nel tempo della memoria e nel territorio delle immagini. Al pari del personaggio di Mario, che nel film disegna carte geografiche «splendide, ma scarsamente scientifiche», il regista portoghese ri-crea un mondo aderente al reale solo nella misura in cui se ne separa. Un’operazione in questo senso simile a quella compiuta da Wes Anderson in Moonrise Kingdom e in tutti i suoi film. L’Africa rappresentata in Tabu esiste solo nello spazio/tempo cinematografico, non è autentica né vuole esserlo, a mala pena è verosimile6; ciò non toglie che è perfettamente riconoscibile, poiché ricorda un’Africa già vista, o immaginata, al cinema o, magari, in un libro.

In fondo, tutto era già stato detto, raccontato (dallo stesso Gomes, in voce-off), in forma allegorica nello splendido prologo. L’esploratore è una «melancólica criatura», divisa tra il doloroso ricordo di un passato perduto (che ritorna in forma di fantasma), e la tenera volontà di trovare un luogo, finanche un aldilà, in cui poter ricominciare. Lasciandosi divorare dal coccodrillo, egli riapparirà sotto le sembianze di quest’ultimo: «crocodilo melancólico», nel cui sguardo si ramifica quel sentimento di infinita saudade. È questa la figura chiave del film di Gomes: essa scandisce il tempo e custodisce il desiderio, osservando la storia ripetersi all’infinito, in un eterno ritorno del diverso. «Le immagini filmiche sono immagini della memoria, sono la presenza e l’oblio, la resistenza retinica e lo stato di interiorità» (Bruno 2006, p. 21): è il segreto contenuto e svelato da Tabu. Il cineasta lusitano compie così il sacrilegio più grande, infrange il tabù del cinema poiché ne mostra la natura e l’origine. E lo fa nella maniera più sorprendente: attraverso il cinema stesso, creando una dolce illusione, a cui si finisce per credere, dimenticando tutto il resto, fino a quando le luci in sala si riaccendono e quello che rimane è una strana sensazione, sospesa tra nostalgia e speranza. Ecco, la saudade.


NOTE

1 Tabucchi riporta la definizione fornita dall’autorevole Morais, «che è come dire Il Battaglia per il Portogallo, ma è stato pubblicato molto prima» (Tabucchi 2013, p. 56).

2 Secondo un’impostazione già sperimentata dal regista nei suoi precedenti lungometraggi, Aquele Querido Mês de Agosto (2008) e A Cara que Mereces (2004).

3 Tabù di F.W. Murnau è nato dalla collaborazione tra il regista tedesco e il documentarista americano Robert J. Flaherty. È risaputo che durante la produzione del film il loro rapporto si deteriorò al punto da portare Flaherty ad abbandonare il set e a disinteressarsi del progetto. Come si legge nella monografia di Andrea Minuz, «non pochi storici del cinema hanno voluto leggere in questa lite il contrasto stesso tra le due opposte concezioni dell’immagine filmica, tra l’autenticità dell’immagine documentaristica (Flaherty) e la rifigurazione delle forme del reale attraverso il lavoro simbolico della messa in scena (Murnau)» (Minuz 2010, pp. 30-31).

4 Secondo la ormai classica definizione del termine che ne dà Marc Augé.

5 Vivida, se si pensa alla quantità scene nelle quali è presente il mondo coloniale, invisibile perché quel mondo e i suoi protagonisti rimangono sullo sfondo; così, tra le tante, la straordinaria sequenza di apertura della seconda parte del film quando Aurora sta facendo jogging: una volta che esce dal campo, sulla scena restano soltanto i domestici africani intenti nel loro lavoro.

6 Sono molti gli elementi che infrangono il dato storico e quindi il presunto realismo delle immagini; così, ad esempio, la maglia da calciatore dei nostri tempi indossata da un bambino nel momento d’addio tra Ventura e Aurora.


Bibliografia

Aubron H. (2006): Le cinéma retrouvé. L’Aurore Le début et la fin, in «Cahiers du Cinéma», 608, gennaio, pp. 82-84.

Bruno E. (2006): Ritratti Autoritratti, Bulzoni, Roma.

Diana M. (2001): Manoel de Oliveira, Il Castoro, Milano.

Minuz A. (2010): Friedrich Wilhelm Murnau. L’arte di evocare fantasmi, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma.

Tabucchi A. (2013): Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema, Feltrinelli, Milano.


Filmografia

A Cara que Mereces (Miguel Gomes 2004)

Aquele Querido Mês de Agosto (Miguel Gomes 2008)

Aurora (Sunrise: A Song for Two Humans) (Friedrich Wilhelm Murnau 1927)

Blancanieves (Pablo Berger 2012)

Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore (Moonrise Kingdom) (Wes Anderson 2012)

Nuovo Cinema Paradiso (Giuseppe Tornatore 1988)

Tabu (Miguel Gomes 2012)

Tabù (Tabu) (Friedrich Wilhelm Murnau 1931)

The Artist (Michel Hazanavicius 2011)