Michele Sardone

labruceLa gerontofilia del titolo sembra rivolta, più che ai corpi decadenti e azzimati, a un certo cinema vecchio, il cosiddetto “classico”: sceneggiatura ammiccante , inquadrature da incorniciare, montaggio al servizio della narrazione, fotografia patinata. Bruce LaBruce tenta di sovvertire il concetto di bellezza, ma si arrende comunque alla gerarchizzazione: non contesta la bellezza in sé, ma prova solo a invertire di posto quel che viene definito attraente con ciò che è disgustoso, lasciando invariato il sistema formale.


LaBruce non rinuncia a certe sue ossessioni, al cadaverico, alla tensione verso la distruzione e il nulla, e lo fa anche citando se stesso, in particolare il suo precedente L.A. Zombie, dove però riusciva comunque a superare i limiti fisici imposti dalla forma squarciando le forme stesse (in primo luogo i corpi maschili, che solitamente sembrano così restii alla frattura, alla scomposizione e alla disorganizzazione), fino a una ludica dissacrazione delle banalità intorno alla morte e al rapporto sessuale.

Invece in Gerontophilia è proprio il corpo maschile a darsi come struttura senza scalfitture, liscia e imperforabile, sistema organizzato e funzionale, imponendosi attraverso le fattezze del giovane e bellissimo gerontofilo, attratto sì dalla decadenza di un vecchio conosciuto in una casa di riposo (ovviamente, “classicamente” mostruosa), ma senza mai mettere in gioco la propria perfezione formale. L’osceno non viene mai mostrato (si ha persino timore a nominarlo), la perversione non è più tale: le diverse gradazioni della decadenza (a cominciare da quella latente della madre fino a quella definitiva del cadavere dell’amante) vengono via via normalizzate non appena entrano in contatto con ciò che, secondo il canone corrente, è bello, ovvero il corpo perfetto del gerontofilo, vero reagente che edulcora lo scandalo facendolo rientrare nello schema dei sentimenti puri (e classicamente accettati) dell’affetto, dell’amicizia e dell’amore.

Eppure LaBruce sembra averlo presagito: la sequenza in cui cita L. A. Zombie (attraverso un trip del gerontofilo che immagina di leccare bubboni ed escoriazioni del vecchio amante) pare, a posteriori, il malinconico rimpianto di un autore per quel che più non gli riesce.