Miss-ViolenceTorte, candeline; sorrisi, come quello che Angeliki ha ancora sul viso avvolto dal sangue, denso e purpureo, dopo essersi lasciata cadere nel vuoto: gesto estremo di fuga, evasione silente. E quindi, mentre scorrono i titoli di testa, silenzio.




Per Alexadros Avranas un confronto con il connazionale Lanthimos può sembrare azzardato ma risulta necessario se si ragiona sulla ricerca di fondo, il fine/mezzo (soprattutto politico) di questi due registi: e, difatti, in entrambe le pellicole ad essere rimarcata è la violenza (direi totalitaria) che un sistema come quello familiare è capace di imporre, con gelido cinismo, ai suoi componenti; ma laddove in Kynodontas il regime istituito era finalizzato ad una forma (malata) di tutela, di salvaguardia dalla società vacua e corrotta, Miss Violence capitola nella strumentalizzazione del nucleo familiare, e precisamente nell’affitto dei corpi, giovani e non, immolati al mero guadagno (una strizzata d’occhio alla crisi in cui è riversa la società greca e non solo). E dunque una porta che si chiude all’esterno, un micro-sistema autosufficiente che educa al silenzio, la violenza forse più efferata, e che sempre dall’interno fronteggia rivolte intestine (la rapida metabolizzazione del suicidio di Angeliki, il distacco che le altre donne impongono sul divano a Myrto, rea di aver accennato delle violenze subite a scuola).

A mancare è l’allusione, quel carattere di sospensione ancipite che avvolge una poetica tale quella (appunto) lanthimosiana. Tutto è detto, tutto è mostrato. Unico fine sembra il compiacimento visivo per la (liberatoria?) mattanza finale.