Gemma Adesso

Il cinema di Costanzo è connotato da un rigore raro a formare un’idea di spazio decomposto ed esatto nel quale i personaggi si muovono (o non si muovono) assorbendolo, diventando parte integrante di un sistema di forze che si diramano da un “quadro” centrale e invisibile.
Più che un punto di vista interno che incide e modifica il senso della composizione generale e ne orienta la morale, è nell’irruenza del contrasto tra interno ed esterno, nell’assenza cioè di un punto di vista specifico che possa dare un indirizzo alle opinioni; è nel disorientamento che segue al passaggio da una scena all’altra che progressivamente si (spro)fonda la visione.


Come nel precedente In memoria di me la simmetria delle inquadrature, la profondità di corridoi silenziosi, di spazi claustrofobici e dimensioni immaginifiche della preghiera dispiegavano e complicavano l’evoluzione mentale del protagonista, così in Hungry hearts il rigore della tecnica registica è lo strumento implacabile attraverso il quale Costanzo rende visibili posizioni etiche e visioni del mondo radicali e deformanti: l’abbandono della carne (nel senso proprio di privazione sia alimentare che affettiva) è preservazione dell’organismo ma anche crimine sanguinario; i legami (co-)stretti in circostanze casuali assumono i contorni di un cieco fatalismo; l’amore incondizionato è l’altra faccia dello strappo.

Più che una donna rinascimentale, Alba Rorhwacher somiglia a una madonna bizantina livida e bionda che abbraccia un bambino dallo sguardo adulto, consapevole. Da quest’abbraccio iconico che è forza centrale si sviluppano luoghi ed episodi laterali anteriori e successivi: dall’incontro nel bagno bloccato di un albergo anonimo all’appartamento piccolo e luminoso che diventa stretta verticale di reti scale sbarre e cancelli, dal ballo del matrimonio all’incubo della sala vuota, dal ventre della madre al contatto con la tossicità esterna, dallo sparo del sogno alle teste di cervo impagliate in spazi lynchani.
Il padre, che è figlio, scompare nel tentativo di resistere alla contesa furiosa delle madri; è l’esterno razionale in perenne ricerca di uno spazio di equilibrio interiore, ma portatore dei germi del mondo.

La deformazione dei corpi e i volti distorti dalle ferite proiettano spazi mentali dominati dall’ossessione, come nell’ultimo (e soprattutto in Kotoko del 2011) Tsukamoto, l’immaginazione si fa carne di cuori ma per smaterizzarsi, invadere luoghi, lasciare implodere legami e poi spalancarsi in orizzonti crepuscolari. L’abbraccio ancestrale con la Natura – che appare improvvisa in uno scenario di interni nella sequenza della fuga verso l’Oceano – resta però leopardiana sfinge che affama, premurosa-pericolosa madre, ma sempre “cosa grande”.