Nicola Curzio
Anni prima che Christopher McCandless decidesse di intraprendere il suo cammino verso l’Alaska, un’altra adolescente, Robyn Davidson, in un’altra parte del mondo, affrontò un lungo viaggio nel deserto australiano. Se il paragone tra queste due persone è, perlomeno qui, di scarso interesse, non lo è invece quello tra i loro personaggi al centro, rispettivamente, del film di Sean Penn (Into the Wild, 2007) e di John Curran (Tracks, 2013).
Curran sembra infatti seguire le orme di Penn per narrare le vicende della sua protagonista, interpretata da Mia Wasikowska. La struttura dei due film è simile: ad una prima parte di formazione e addestramento, segue quella del viaggio estremo, fino al finale che – benché diverso – in entrambi i casi collima in una fotografia reale, sopprimendo così ogni tratto di finzione creato dal/nel film. Se nella pellicola di Penn, però, questa radicale operazione di aderenza al reale (che ha portato alcuni a definirlo addirittura “anticinematrografico”) era giustificata dal percorso comune che autore e personaggio avevano intrapreso, e che quindi portava il primo a rinunciare caparbiamente ad ogni ingerenza del cinema classico per addentrarsi, da solo, nelle terre selvagge e, per certi versi, inesplorate del cinema, non si può dire la stessa cosa del film di Curran.
Proprio come l’isolamento che insegue la protagonista è costantemente interrotto da individui esterni (gli amici prima, il fotografo poi) e appare, dunque, inconsistente (“ci rivediamo tra cinque settimane”, cioè tra dieci minuti) anche il regista statunitense non riesce a prendere le distanze da una messa in scena ancora profondamente canonica, hollywoodiana, pur avendone – probabilmente – l’ambizione. Il vuoto in cui si muove il personaggio della Wasikowska è uno spazio cinematografico già battuto, in cui il senso di smarrimento è solo un’illusione. La parola, questo rumore perpetuo e nauseante prodotto dalla società, da cui essa fugge per trovare conforto nel silenzio del deserto (“Le parole sono sopravvalutate” dirà ad un tratto un altro personaggio del film), si perde solo per un istante nei numerosi campi lunghi e nelle continue panoramiche delle dune e delle lande desolate: la protagonista, infatti, torna presto a socializzare con i vocaboli e con la società (come nella sequenza in cui gioca a scarabeo), fino al ricongiugimento totale del finale. Alla stessa maniera, Curran non si abbandona mai veramente a questo spazio immenso, al cinema, rimanendo imbrigliato negli stessi codici che sembra rifiutare, e non compiendo, dunque, movimento alcuno.