Luigi Abiusi
Dice come si permette quello di toccare il più importante e amato (amato? paradosso scolastico, adolescenziale, o pura mistificazione) poeta italiano e di ridurlo a macchietta? E per giunta di rappresentarlo mentre va a puttane (e certo, sempre per quella mistificazione scolastica, Leopardi non potrebbe che essere corifeo di una sorta di platonismo romantico, privo di carnalità, desiderio, ecc.: appunto, ora sì macchietta; ma cos'è quel piacere su cui disquisisce con tanta veemenza se non piacere erotico?).
Dico io e chi l’ha detto che Leopardi sarebbe il più amato poeta italiano? Sull’importanza poi, mi piace ricollegarmi a Mario Luzi che a un certo punto scrive un saggio capitale, Al di qua e al di là dell’elegia, in cui, per certi versi, ridimensiona la centralità di Leopardi e appunto la sua linea elegiaca (o la rimodula), in favore di quella innica. Cosa coraggiosa, visto che per lungo tempo nel Novecento ha regnato l’ingiunzione di Contini che appunto evidenziava di volta in volta la presenza degli elegiaci (cioè dei poeti che denunciavano la negatività del mondo), trascurando quasi del tutto gli abbagli e gli incanti di poeti come Campana, Boine, il primo Rebora. Insomma tutta una linea orfica (anche se, certo, Rebora e Boine non possono rientrare in questa marca, ma nella categoria innica sì) che Agamben esalta nel saggio Il torso orfico della poesia, condividendo la luziana (e “positiva”) «religione dell'avvenimento del mondo», propensione a inneggiare al mondo.
E Martone, con il suo Giovane Favoloso, riesce a sottrarre in parte Leopardi a questa retorica scolastica e storicistica (addirittura filologica), attualizzandone (favolosamente) la figura in nome di una viva, brulicante (appunto positiva) contraddizione, che da una parte innesca il negativo storico e cosmico nella dimensione libresca, nelle opere leopardiane (che il poeta stesso rivendica e difende contro i detrattori o gli scettici), dall'altra fa trasparire dal corpo ottuso, piegato, caracollante di Elio Germano una giovanile, ingenua resistenza, una vitalità e partecipazione al mistero del mondo, che, ad esempio, è gioia nel momento dell'incontro con il mentore e amico Pietro Giordani o contemplazione incantata di orizzonti e costellazioni quando deve comporre L'infinito o La ginestra: certo, sappiamo tutti che Leopardi non componeva in modo rapsodico, ma con un labor limae accurato, periodico; ma è proprio questa falsificazione del referto scientifico a rendere affascinante il film, che vibra nei gesti infantili, nelle mura e tra le strade squillanti di Recanati, negli occhi limpidi del poeta di fronte alla bellezza delle cose (confutando in parte le sue stesse parole).
Talmente attuale, questo Leopardi, da far pensare anche all'intellettuale di talento (e sensibile e fantasioso) eppure precario dei giorni nostri, costretto a questuare il necessario per la propria sopravvivenza; e da fare risaltare le musiche di Apparat, la splendida ventata di note “ambientali”, accanto a quelle di Rossini, a proiettare definitivamente il film fuori dalla (sterile) storia e dentro i campi, i colli, le sorde, rutilanti plaghe stellari di sempre.