Articolo tratto da "Filmcritica", n. 608, ottobre 2010.
1.
Ci sono delle linee di forza che tramano le immagini, che le spostano e le disorientano, testandone la disponibilità e la resistenza a flussi incongrui, a iniezioni eclettiche, a energie anomale. Assomigliano a delle volumetrie, i cui setacci, in altro senso, tramano alle spalle delle immagini stesse, magari facendo appello a una esplosiva fisica erotica, oppure diluendo nella miscela una pura chimica spettrale: Machete di Robert Rodriguez e Ethan Maniquis e Jianyu (Reign of Assassins) di Su Chao-Pin e John Woo, rispettivamente e tanto per cominciare (il sistema delle coppie, col raddoppio dei nomi alla regia, benché poi sia inesorabilmente chiaro chi fa da spalla a chi, non spiega del tutto la trama né il complotto produttivo, ma fa parte della medesima geometria cubica. E chissà che, di tale laborioso duettante laboratorio, non stia passando qualcosa in certo cinema italiano, su cui torneremo prossimamente, che a Venezia quest’anno è parso radiografarsi nell’ombra: Maderna/Pozzoli, De Angelis/Di Trapani, Zamagni/Ranocchi e, ovviamente, Gaudino/Sandri).
Eppure, siamo di fronte a soggetti omogenei? No, perché ogni linea è una variabile e una derivazione. No, perché la crisi, la nostra crisi, attende volumi inediti, dovuti e voluti proprio dalla disomogeneità in cui si originano. Non possiamo non sapere che tutti i dispositivi (ricordando Deleuze ultimo), tanto più se malati o inceppati, sono la nostra occasione. Non c’è tempo per sedimentare, oggi, in questa palude, bisogna invece individuare fratture e intermittenze, concependole come strappo necessario al pur minimo avanzamento e cambiamento.
Vanno bene, cioè, anche certe interdizioni o lateralità, certi passi semplici e semplicemente claudicanti, romantici, perché delicati e inesatti, teneramente in equilibrio fra cinismo e ironia, in cerca di tratti familiari da cui ricominciare a vedere i volti e la loro luce: Somewhere di Sofia Coppola, il suo film migliore, del quale resta la terrea precisione con cui coglie l’attuale orrore italiano, preso così, di primo acchito e quasi senza avvedersene, con la rabbia e lo sconcerto della malinconia più inattesa, in dieci minuti di trasferta milanese per ricevere l’ambito telegatto da Simona Ventura, Nino Frassica e Valeria Marini, mentre si affollano sindaci, carabinieri, autisti, giornaliste à la page, suffragette ex MTV e biondine in carriera del “nuovo” cinema italiano; resta, soprattutto, il transfert intimo, al limite dell’autoritratto, che la Coppola opera con la sorprendente Elle Fanning (sorella minore della più famosa Dakota di quel Twilight raccontato all’ignaro padre divo hollywoodiano), che serve al testacoda col più tetro ancora papà Francis, in un quasi remake di Life Without Zoe.
E vanno bene certe opacità assolute, strabordanti e traballanti ai bordi, fascinosissime nel mostrarsi come tour de force di direzione d’attori prima ancora che filmiche, ma che forse si esaltano cinematograficamente proprio nell’esporsi dell’attore fino al punto di celarsi sotto la trasparenza del fantasma (eterno femminino): Black Swan di Darren Aronofsky, dove le tre immense Natalie Portman (in eterno falsopiano lucasiano), Wynona Ryder (che sembra ormai Natalie Wood rediviva) e Barbara Hershey (che forse rivede nel cigno Natalie Portman se stessa come Boxcar Bertha), ripetono il capolavoro fatto da Mickey Rourke in The Wrestler, confermando tuttavia, Aronofsky, una laconica e quasi ottusa difettosità d’insieme, ravvisabile nell’evidenza con cui, neanche per sbaglio, si possa mai pensare, durante il film, a Powell-Pressburger o a Mankiewicz, che pure ne sono emergenze automatiche (ma di sicura potenzialità e meno incerto, restando al femminile, del piccolo pasticcio La belle endormie di Catherine Breillat, che non si risolve, a esser buoni, fra spruzzate di Ruiz, il Demy di Peau d’âne e Lewis Carroll; meno estetizzante e più onesto del museale western-installazione freddo e rachitico di Kelly Reichardt, Meek’s Cutoff… Mentre va segnalato con forza l’esordio Attenberg della greca Athina Rachel Tsangari, che dimostra quanto sia già in circolo l’esempio di Yorgos Lanthimos, del quale si riprende qui, con maggiore leggerezza, ma altrettanta voracità e spiazzante vocazione allo squilibrio, la tensione a ricostruire detection vuote, seccamente surreali, che raccontano la versione apocalittica di una terra, anche filmica, desolata: che ne riflettono l’avvenuta per-versione).
Vanno bene anche, e proprio perché, non rilevano prontamente, forse per troppo accanimento, ciò che a Rodriguez riesce con naturalezza, e cioè sapere che la frattura è di per sé sufficientemente erotica per modificare il quadro, senza bisogno di miriadi di angoli acuti, ma con la violenza fissa e potente della carne che sono le immagini (del tutto filmica e mai cinefila, esattamente come per Tarantino: meglio citare subito, anche qui, la sequenza iniziale del cellulare nascosto nella vagina e le due api regine sparatutto, che letteralmente fagocitano pellicola, Jessica Alba e Michelle Rodriguez – senza dimenticare la macchina celibe di provenienza joedantesca, che ritorna qui a un buon livello di auto-ironia, di Robert De Niro). Rodriguez può citare quanto cinema asiatico vuole, ma la verità è che Machete (certo, con qualche alzata di volume in più) ha un piglio carpenteriano, per il modo in cui esorta l’immagine, per quanto movimentata e freneticamente sexploitation, a installare un blocco compatto di assoluta intensità politica, che relega il tipico armamentario di contorno – lo sciocchezzaio quotidiano e quotidianista fatto di parole come genere e cult-movie – alla stregua dei nemici di Machete e del popolo reietto messicano di cui si racconta qui il dolore e la rivolta: aggettivi perfetti a segnalare solo il livello di corruzione raggiunto dai geni del male al potere.
Ciò vale ancor più per John Woo, che continua nella creazione di una autentica nuova geografia dei sentimenti, dell’onore, delle leggende, periodandole per falde, strati, convulsioni dolci e abissali, come fosse impermeabile al tempo presente, che deve essere appunto dismesso, più di quanto non lo sia in quanto tale, per mettersi su un’altra strada, meno battuta certo, più rischiosa, sconosciuta e a cui è ancora difficile dare un nome. Se il cinema ha ancora un nome, dovrebbe essere in grado, come fa sistematicamente questo bellissimo Jianyu, di filmare sempre ciò che si diventa e che si sta diventando, il divenir altro d’ogni molecola a ogni istante, il face-off cui è implacabilmente destinato il mondo. Anzi, da questo punto di vista, il ri-orientarsi di Woo in qualche modo condensa anche due film magistrali quali Di Renjie zhi Tongtian diguo (Detective Dee and the Mistery of the Phantom Flame) di Tsui Hark e Jusan-nin no shikaku (13 Assassins) di Takashi Miike, che a loro volta schizzano il disegno dell’attualità politica sulla tavolozza fantasticata dell’archivio storico, il primo seguendo le gesta spirituali di un magistrato operaista alle prese con cerbiatti parlanti e scarabei infiammabili (simili alle bombe artigianali risorgimentali che vengono costruite in Noi credevamo di Mario Martone), e il secondo lo spirito viaggiante che si unisce, incarnandosi nel corpo di un giovane contadino, alla rivolta kurosawiana di dodici onorevoli samurai. E così la caduta della statua gigante del Buddha di Tsui Hark, che polverizza cotanta spericolatezza digitale con una rovinosa verticale titanica diretta sul palazzo imperiale (non si può non pensare ora subito al già sottovalutatissmo, ma perfettamente in linea d’aria con questo cinema e col suo cinema, L’ultimo dominatore dell’aria di M. Night Shyamalan, una sorta di little Buddha in the water, che si allaccia al film di Tsui Hark con la mirabile finale onda oceanica innalzata al cielo), coincide nel film di Miike con la magnifica sequenza inclinata del samurai colpito a morte che continua, da quella posizione sottile, a strisciare la visuale sui compagni che si battono, fino a morire in oblunga dipartita.
E là sotto si annida The Ditch (Il fosso) di Wang Bing, nei campi di rieducazione maoisti scavati sottoterra nel deserto del Gobi, a visualizzare parte dei racconti documentati nel precedente capolavoro He Fengming, ma senza potersi dire fiction, e agendo con fermezza contro il documentario e scartando qualsivolglia teatralità. Il paradosso di Wang Bing, tuttavia, è che non si può mai dire programmatico, benché forse lo sia fino allo spasimo, protagonista anch’egli di un percorso politico che rileva nello spazio ciò che il tempo dimentica di se stesso. Suo malgrado, The Ditch è il contrario del film di denuncia che avrebbe voluto, dal momento in cui diventa un’ivensiana storia del vento, che sbatte i corpi e la sabbia, portando via nella notte i vivi e i morti. A forza di star lì, nel corpo dolorante della Storia, si comprende forse come l’unico intervento politico oggi sia quello di saper diagnosticare l’evento o il momento in cui un dato sconosciuto balena agli occhi, investendoli e modificandone il modo di guardare (è probabile che mi sbagli, ma il già citato Martone e, in apparente tutt’altra direzione – ma Noi credevamo finisce là dove iniziava Vincere – il Bellocchio di Sorelle Mai, si attestano entrambi sul medesimo crinale di decisiva analisi dell’incompiutezza e tradimento insiti nella Storia, perlomeno ogni volta che viene fatta o detta. Consapevoli, come insegnava Rossellini, che farla e dirla significa, drammaticamente, sempre rifarla e ridirla, cioè tradire nel punto stesso, però, in cui il tradimento può al contrario far insorgere la verità. Esattamente come le immagini di cui si è scritto fin qua: vere perché inattualizzabili, cioè politiche, dissonanti, sconosciute).
2.
Si è volutamente usata la parola “sconosciuto”: e non nuovo. Perché, al di là d’ogni retorica comunicativa locale o di massa, il compito e il desiderio della scrittura dovrebbe essere quello di rifuggere la novità, che va sempre disconosciuta, occupandosi invece di ciò che è lontano, inospitale, arduo, difficile da comprendere e da riconoscere, sconosciuto appunto (e si è volutamente usata la parola scrittura: e non critica, cui già da molto tempo stento a credere).
Ad esempio il motivo per cui sono fermamente convinto che non esistano film più belli di (nell’ordine) Road to Nowhere di Monte Hellman, Promises Written in Water di Vincent Gallo e Essential Killing di Jerzy Skolimowski, non è lo sbriciolarsi dell’occhio, e poi, anche, il suo allungarsi raggelarsi perpetuarsi confondersi nel rassettarsi continuo dei set, degli spazi e degli schermi che li accomuna; non è né lo sfondamento auto-mesmerico di Hellman, arrischiato sulla presenza struggente di Shannyn Sossamon, che da sola è due, Velma Duran e Laurel Graham, e un altro numero imprecisato che risponde ai nomi di Nick Ray, Sam Fuller, Preston Sturges, Mark Robson, John Stahl, Victor Erice, Ingmar Bergman, Robert Altman (ma il film che gli è più vicino, nonostante l’ulteriore sottofondo lynchiano, peraltro ribaltato in matematica purissima, quindi del tutto inquieta e inesatta – ma, si sa, solo in Italia si può essere così stolti e ingenui da credere che i numeri primi siano solitari – è Cuore di vetro di Herzog); né lo sfrigolio pellicolare di Gallo che brucia e distilla e solarizza e tumorizza (Brakhage? Wahrol? Garrel?) dall’interno il film, facendone incespicare la lingua, mentre dimostra che non ne ha (Godard?), mentre la ridefinisce come fosse sul tavolo autoptico della morgue; né la potenza visionaria di Skolimowski, talmente rarefatta fisica ossessiva politica, da farsi veggente, anticipando brani futuri in lampi lancinanti provenienti dal passato (di fattezza paradjanoviana, e come se fosse Jack London o William Faulkner), e solcando gli eventi con una concentrazione tale da assediarli e annullarli in un’unica nervosa voracità (il Losey di Caccia sadica, Friedkin, Herzog, senza dimenticare il tenero dialogo a distanza con Polanski, fra navigatori inceppati e Emmanuelle Seigner). È il loro donarsi (rischiarsi fino a raschiare il fondo di se stessi) al contraddittorio, all’incoerenza e al coraggio degli outsider, al conflitto perpetuo, ricercato e rilanciato, anche sperduti nel buio, anche nel naufragio di tutto.
In un’unica accezione è giustificabile il ricorso al termine “nuovo”, per l’appunto quella che circola in questi film devianti e inconoscibili, e cioè il modo in cui una luce mai vista risale la corrente della Storia e ricadendo sulla terra si diffonde disperdendosi («distribuendo il visibile e l’invisibile», direbbe ancora Deleuze): e ciò vale per il filmare, per lo scrivere, per il vivere. Solo che individuare e poi porsi direttamente sull’incrinatura è la cosa più difficile, e bisogna essere il Manoel de Oliveira sublime di Painéis de São Vicente de Fora – Visão Poética per tradurre l’incognita in narrativa politica, appellandosi all’umanità e alla convivenza, come può essere il semplice racconto di un’opera del XVI secolo di ancora misteriosa attribuzione. Il polittico più politico mai visto. Questo è il povero, il povero dei poveri ed anche il clamore delle crisi.