Luca Romano
«Se le lacrime vengono agli occhi, se possono anche velare la vista, forse rivelano, nel corso stesso di questa esperienza, un’essenza dell’occhio, in ogni caso dell’occhio degli uomini... Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. Ciò che fanno uscir fuori dall’oblio in cui lo sguardo le tiene in riserva sarebbe niente meno che la verità degli occhi di cui le lacrime rivelerebbero così la destinazione suprema: avere in vista l’implorazione piuttosto che la visione, indirizzare la preghiera, l’amore, la gioia, la tristezza piuttosto che lo sguardo»
Derrida parlando dello sguardo ne rivela l’essenza nella lacrima: ciò che è proprio dello sguardo è l’esser velato. Ed è in questa velatura che lo sguardo diventa confronto filtrato, ed è in questa velatura che avviene la narrazione di Joshua Oppenheimer in The look of silence. Lo sguardo di Adi, protagonista e fratello di Ramli, ucciso durante le stragi del 1965-1966 che hanno portato alla dittatura militare in Indonesia, è sempre velato, bagnato, nonostante lui sia, nel villaggio in cui ha vissuto, l’oculista, colui che porta la vista.
Le domande, le interviste e le narrazioni che scandiscono il ritmo del film, si abbandonano al confronto, fondamentalmente muto, tra i colpevoli e chi è sopravvissuto. Ed è proprio su questo punto che si gioca il perdono invocato da Adi da parte di sua madre nei confronti di chi ha ucciso. Il perdono diventa l’equiparazione tra chi è colpevole e chi no, ma in fin dei conti non c’è più nessuno che non sia colpevole. La stessa madre di Adi sapeva, ma non ha avuto la forza morale per ribellarsi, né quella di non sentirsi colpevole per questa debolezza. Ma non basta l’equiparazione, non basta perdonare. Guardare è molto di più. Lo sguardo è capace di rimettere in discussione la storia stessa. Non è sufficiente esser i vincitori per poterla scrivere, è necessario che non vi siano più i vinti per poter avere una sola storia, ma ovviamente questo non è possibile, ed è proprio nello sguardo di chi è stato vinto che c’è lo spazio per poter cambiare nuovamente tutto, per un’ulteriore riscrittura.
È nello sguardo dei vinti che si riesce realmente a comprendere la portata morale di quella che la Arendt ha definito “Banalità del male”. Non nell’essere un mero burocrate (il famoso “Ho semplicemente obbedito agli ordini” utilizzato da Eichmann così come da quasi tutti i colpevoli intervistati), ma nel continuare, dopo, ad esser esattamente identici a tutti gli altri, nel continuare, ad essere, dopo, accettato all’interno di una comunità. La banalità, in realtà, ci allontana semplicemente dalla radicalità Kantiana del male, ma attraverso gli sguardi degli assassini e le loro narrazioni, riproposte da Oppenheimer, non ci si scosta minimamente dalla mostruosità dell’atto.
Ed è nella storicizzazione che la morale si perde. Nel rendere la storia un meccanismo di inesorabile destino, è nell’“è andata così” che si perde la responsabilità, mutando l’etica Kantiana del “agisci come se la massima che muove le tue azioni sia una massima universale” in “ho agito come avrebbe agito il Führer”, in questo caso i rispettivi capi del Commando Aksi. I meccanismi di fuga morale, più volte riproposti dai colpevoli, non sono altro che storicizzazioni di azioni che perdono l’esser atto, spontaneo e vitale, e diventano semplici meccanismi.
La ripetitività con la quale gli assassini uccidevano, sulla riva del fiume; la ripetitività con la quale i camion partivano con i comunisti da uccidere; la ripetitività con la quale arrivavano gli ordini; la ripetitività con la quale i colpevoli rispondono alle domande nella stessa maniera; la ripetitività delle cause per le quali era giusto uccidere; la ripetitività del bere il sangue delle vittime per non impazzire. L’atto che diventa meccanismo, letterariamente l’abitudine che Dostoevskij ha invocato quando ha scritto: “A tutto si abitua quel vigliacco ch'è l'uomo”.
È solo la lacrima che riesce, in tutto questo, a velare la vista e a rompere il meccanismo. Ed è grazie alla lacrima che Oppenheimer riesce a riportare un rantolo di umanità all’interno della storia.