Nicola Curzio
«Io sono una pietra. Lo ripeto: una pietra. So che non potete capirmi; dovrei spiegarvi queste quattro parole una per una e a gruppi di due e di tre e poi tutte insieme: cosa voglio dire quando dico io, e quando dico essere, e pietra, e cosa vuol dire essere pietra, e una, una pietra… Forse in questo mondo di pietra non c’è un prima né un poi: il tempo delle pietre è concentrato nel nostro interno dove si addensano le ere. Neanche lo spazio che ci circonda conosce il tempo, per cui possiamo restare sospese lasciando che la forza di gravità si eserciti tra le nostre masse che si fronteggiano immobili. Ma anche noi nella nostra superficie scavata e scheggiata e rotta ci portiamo addosso una storia, tracce di eventi irrevocabili che non si situano in un quando e in un dove.» (Italo Calvino, Essere pietra)
Ai piedi di un’immensa montagna, Agostino e la sua famiglia vivono isolati dal resto del mondo. Quella che una volta era un terra abitabile, ora è un campo di morte. Le cime aguzze del massiccio blocco di pietra non permettono il passaggio dei raggi del sole e una foschia grigia si è impadronita del vuoto circostante. Nemmeno la scomparsa della figlia, però, persuade l’uomo a lasciare questo luogo maledetto e abbandonato da tutti. Con la moglie Nina e il figlio Giovanni, Agostino tenterà in tutti i modi di opporsi al tragico destino, arrivando a scagliarsi direttamente contro la montagna.
Girato sulle Dolomiti, Monte di Amir Naderi (una coproduzione italiana) è un’opera di rigore estremo, che ribadisce con forza e determinazione un’idea semplice e potente: il cinema come atto di resistenza, di esistenza, di libertà. Un pensiero, o ancor prima un’indole, alla base di ogni lavoro del regista iraniano; qualcosa che si tramanda di pellicola in pellicola e che qui trova una nuova immagine: un uomo che affronta una gigantesca montagna armato di martello.
Monte è in primo luogo un gesto, radicale e istintivo, in un certo senso primitivo, poiché necessario alla vita. Ciò diventa evidente soprattutto nella seconda parte della pellicola quando l’azione si assolutizza, facendosi martellante e ripetitiva. Come nel precedente Cut, Naderi porta il protagonista (e il film intero) allo sfinimento. Non c’è spazio per la tregua o il compromesso. Dietro ogni colpo che Agostino infligge alla montagna si cela l’ostinazione, la disperazione e la passione di un regista che non si arrende mai e che continua a combattere per preservare il suo sguardo sul mondo, la sua idea di cinema.
Essere pietra. È forse questa l’aspirazione ultima di Naderi, o almeno delle sue immagini, così granitiche e materiche. Essere pietra per resistere al tempo, per contenerlo e superarlo. Una sfida vana e impossibile, che però trova nel cinema una ragion d’essere.