Luigi Abiusi

altPersa l’apertura di Chazelle, è Cianfrance la prima visione di Venezia73, ma troppo melò e stucchi e crinoline di dama, troppa ridondanza melica delle musiche per essere almeno interessante; alcuni gorgogliano il giorno dopo, prima del capolavoro di Wenders, gonfiandosi il petto di colombo per via della frase-tipo “scritto male”: come se c’entrasse davvero qualcosa scrivere, il compitare, con cose come il cinema, di fronte al quale non si può fare altro che equivocare i significati.


Da sempre festival della supponenza dei cinefili le mostre del cinema: specialismi, tecnicismi orecchiati qua e là e pronti per essere sciorinati in questo limbo bamboccesco che è “la vita nei festival”, processo di corazzamento del proprio io a sedimentazione cristiana, abbracciando solo quello (il film) che si conosce, specchio in cui riconoscersi (individui, cittadini certificati, maschi o femmine), la storia in sè, ed epurando l’orrore sublime, la vertigine dell’Altro. Mi viene in mente quello che dice a un tratto la madre nel Pagliacci di Bellocchio: chi lavora mangia, chi non lavora non mangia; e i muratori che a luglio si scottavano la scorza della pelle sotto il sole mentre vangavano, trascinavano, costruivano la Sala Giardino per l’assalto dei cinefili.

Quello di Wenders è un valzer di solenne leggerezza, nell’andirivieni della macchina da presa tra diversi strati di realtà cinematografica: le strade di Parigi, uno studio da qualche parte nella città, un giardino in cui si svolge l’azione, l’orazione a due voci. Danza di volumi in evanescenza Les beaux jours d’Aranjuez (finora il capolavoro della Mostra), tra il Lou Reed di A Perfect Day e l’epifania di Nick Cave al pianoforte, di Into my Arms, che musicano la malinconia di possedere e perdere parole, poesie, ricordi, sogni (tra fiori, florilegi e cumuli di sterco), e di perdersi dentro il monte Sante-Victoire e in una prima e ultima particella di immagine.

Arrival mantiene qualcosa di lirico e umbratile del Malick per soli archi: anche solo la penombra di un ospedale o di una stanza, di un giardino al di là delle vetrate. Infatti quelle sequenze montate in metrica successione, di volti, epidermidi, teste dei figli che muiono, sono la cosa migliore del film, che pure ha una sua coerenza, all’insegna di ombra e umori scuri, come una bruma estesasi dal Montana al film, anche nel trattare di alieni e paradossi temporali. Ancora, dopo cose come Contact, Mission to Mars, Interstellar, la fantascienza che mischia i suoi destini con la coscienza, i sentimenti, la perdita. Solaris (forse anche quello di Soderbergh) resta lì, misterioso e inarrivabile.

Il discorso metaletterario e metacinematografico di Wenders nella versione americana, Nocturnal Animal di Tom Ford. Che ha il difetto di mostrare la distanza delle dimensioni narrative, indicando chiaramente il telaio principale e le strutture collaterali, ed evitando proprio quell’intreccio, fusione di Wenders che invece permette la comunicazione tra gli stadi della creazione, l’invasione erotica dei suoi contesti; ma anche del Monte Hellman di Road to Nowhere e la compenetrazione da vertigine della carne del racconto, fino a parziali perdite di identità dei personaggi.

Sul bellissimo Brimstone di Martin Kollhoven, decisamente frainteso dalla cinefilia, sul  prossimo Diario.

http://www.youtube.com/watch?v=LnHoqHscTKE