friedkinIl salario della paura è il film dell’ultra-amplificazione sensoriale, dove lo sguardo si trascina fuori da se stesso diventando altro, scoprendosi  orecchio che ascolta: ma di orecchio inverosimile si tratta, ingrandito fino a negare se stesso e divenire una specie di sonda, capace cioè di fare ciò che il microscopio fa con lo sguardo: estrarre una singolarità da un evento complesso ingrandendola fino alla grana setosa e nascosta.


Il risultato è una imitazione non già della vita, ma della degradazione e dell’abiezione di cui il film narrerebbe la cronica discesa: poche opere riescono a descrivere con altrettanta forza grandiosa la caduta nell’abiezione (nemmeno l’originale – per alcuni aspetti superiore, ma assai meno potente, di Clouzot), la discesa agli inferi definitiva (più di Apocalipse Now, più dei gradini che, a Napoli, conducono alla chiesa dei morti – non doveva essere così l’esilio – da forzato – di Rimbaud in Africa? Occorrerebbe forse rifarsi a certe cose di Conrad, come Un Avamposto del Progresso, o ad alcune oscure pagine dei diari dei gesuiti nel Nuovo Mondo) in un remoto angolo di America latina, dove si rifugiano, lavorando come schiavi per una compagnia petrolifera, i reietti dal mondo (splendido l’incipit, che mostra il prima, creando tre brevissimi “corti” che condensano diversi generi: film, in fieri, di impegno civile – conflitto israeliano palestinese, magari sul tipo del Munich spielberghiano – , melodramma familiare – il fallimento di una grande industria – , gangster movie – con la rapina in banca).

Fa seguito l’impresa “difficile da superare”, fatta di prove iniziatiche, ostacoli, dentro una natura ostile e ottusamente crudele. Verrebbero in mente i cavalieri del Graal se non fosse che i nemici arrivano solo alla fine (e sono risibili e grotteschi) e l’unico ostacolo è appunto la natura, che assume le forme mitiche ora di un ponte sospeso, ora della soglia impossibile da valicare (un enorme albero caduto che occlude l’unica strada percorribile). Ritorna in mente, fatalmente, Fitzcarraldo (di cui il film di Friedkin rappresenterebbe una sorta di rovesciamento): lì si trattava di costruire un teatro nella foresta, qui di distruggere, facendo saltare la pira infuocata di un pozzo esploso; lì il suono della foresta crea una sorta di quinta setosa, di muraglia, illuminata dagli squarci della voce di Caruso, qui anche il minimo movimento è amplificato fino all’eccesso, fino alla mancanza di ossigeno (si pensi a quando, verso la fine, il personaggio dell’ex terrorista palestinese fa saltare l’immenso tronco riverso con la dinamite: seduto cavalcioni sull’immenso ostacolo incide la punta di una ramoscello – sembra quasi lo faccia per gioco, per allentare la tensione prima dell’esplosione – poi, con quello stesso oggetto appuntito, buca la scatola con la dinamite, permettendo al liquido di fuoriuscire… nessun rumore è più assordante di quello provocato dall’incisione di questo piccolo foro, neanche quello delle numerose esplosioni. Sembra questa la tecnica di Friedkin: amplificare fino all’inverosimile il dettaglio minuto, lasciando il resto sullo sfondo. E, per un qualche aspetto relativo al movimento all’interno della giungla, ritorna in mente anche Il Paradiso dei Barbari di Nick Ray dove l’itinerario lungo la grande palude, se circolare (in Friedkin il movimento, dapprima rettilineo come quello di una freccia, diventa circolare proprio alla fine, nel grande, allucinatorio deserto salato) era più breve di quello rettilineo: ma in Friedkin non vi sono uccelli magnifici dal piumaggio variopinto (la stessa giungla sembra stranamente spopolata di ogni tipo di fauna, riconducendoci alla topografia della foresta gaste).

Quando l’ultimo sopravvissuto dell’impresa si avvia da solo colmando a piedi l’ultimo chilometro con la dinamite in braccio, gli occhi rosso-tizzone, divorato dalla febbre e circondato dai fantasmi, quello che sembra preludere al titanismo dell’impresa superata (che si colora di tinte alla Coleridge) viene troncato dalla splendida chiusa finale: se la morte può arrivare anche in Arcadia, non si capisce perché non debba sopraggiungere (sarebbe bastato un minuto per eluderla – il tempo di un ballo?) in un avamposto del progresso dimenticato da Dio, ma non dagli uomini. Risuona un ultimo sparo: il rumore è forte come quello di un piccolo foro...