Vengono dai ruderi abbandonati. Girano come pazzi, come cani senza padrone. Guardano sul mondo, come i primi atti del Dopostoria, dall’orlo estremo di qualche età sepolta.
Tsai, più moderno di ogni moderno, è una forza del Passato. Solo nella tradizione è il suo amore. Studio esatto del quadro, della durata e dell’attesa, l’immagine precipita in una tensione statica che misura la disperante forza di grevità di un corpo solo, in costante caduta. Una composizione visiva di coerenza perfetta che controbilancia, nella sua armonia, la disperata eccentricità delle situazioni. L’ossessione liquida domina, come sempre, una quotidianità vera, fatta di gesti il cui significato è da rintracciare al di là dello scheletro tramico. L’immagine acquista durata, fin quasi a immobilizzarsi, per dare allo sguardo il tempo necessario a decodificare più elementi possibili, per raccogliere segni, tracce, e per immaginare altre visioni, per dialogare attraverso gli occhi. Il soggetto vedente si rispecchia nell’oggetto visto; accade ad esempio che i frantumi dei laterizi di un palazzo in costruzione abbandonato sfumino fino a diventare parte di un disegno su un muro, pietraglia di un paesaggio campestre, con tanto di fiume ed alberi: accade che la donna, allora, rapita dalla visione, si accovacci per terra e inizi ad urinare, come se fosse arrivata in riva, a tentare una sorta di vicinanza liquida con lo scorrere dell’immagine.
A mancare è l’incontro fra soggetti, il dialogo sembra impossibile, se non attraverso la mediazione dell’immagine. A mancare è l’altro, del quale resta un feticcio, una testa di cavolo dipinta come il pallone di Cast Away: se nel film di Zemeckis Tom Hanks, esasperato dalla negazione di ogni possibilità di comunicazione che non fosse un monologo, non poteva che calciare il feticcio, restituendolo alla sua funzione primigenia (ed entrando così realmente in rapporto con esso), allo stesso modo in Stray Dogs Lee Kang-Sheng mangia disperato il cavolo, fino a provarne nausea, per stabilire una relazione con l’oggetto, intuendo l’impossibilità di raggiungere il soggetto rappresentato.
Stray Dogs è un film sull’incanto della visione. L’operazione anticommerciale di Tsai Ming Liang (o se si preferisce senza retorica politica: il suo grido disperato e inascoltato – sebbene il grande magazzino sia subito riconosciuto come territorio nemico, mentre il corpo viene ridotto a palo che sostiene l’insegna pubblicitaria) cerca di ricondurre l’immagine alla sua temporalità premoderna, quando un’opera d’arte figurativa veniva contemplata per ore e per quello che era, ovvero l’epifania del trascendente e non, come nel contemporaneo, assimilata a prodotto di consumo, preferibilmente vorace, in modo tale da poter divorare altre figure, altre percezioni. I soggetti vengono ammaliati dalla visione, come gli spettatori di un film, che guardano i personaggi guardare qualcosa fuori campo, ma legati dallo stesso incanto.
In Goodbye Dragon Inn era la sala vuota a fissare quella piena; ora non resta che la visione della visione, in un rimando infinito, un accumunarsi nella stessa aura visuale, negazione e attestazione dell’unico abbraccio possibile che si vorrebbe non finisse mai.