Vanna Carlucci
Tsili accenna passi di danza dentro il buco della storia: qualcosa è stato cancellato, dimenticato, qualcosa le è stato strappato e lei resta così, senza sfondo, senza direzione. È tutto qui, racchiuso in quella "danza sul nero" dei titoli di testa: non si tratta nemmeno di un ballo ma di un inquieto "tarantolare" alla ricerca dello spazio su un piano senza piano alcuno. È un movimento verticale come un eterno scivolare, che è metafora della eterna condizione del popolo giudeo assegnato a una perpetua diaspora.
Tsili è un’anima bianca, una bambina (dal titolo del libro da cui Gitai prende spunto per il suo film Paesaggio con bambina di Aharon Appelfeld): i suoi movimenti sono spaccati, ripetuti, interrotti, quasi una convulsione della foglia che trema perché sta per cadere. Tsili è sola, abbandonata dalla sua famiglia ebrea deportata nei campi di concentramento. Tsili si rifugia nel bosco, luogo labirintico, chiuso, duro, dal colore dei suoi capelli mentre fuori lampeggiano le bombe che, come lampi, aprono le tenebre e mostrano questa vertigine in cui non c’è distinzione tra una tempesta e l’altra, perché nel cuore di Tsili è guerra ovunque e il bosco diventa l’interno, il rifugio dove poter costruire un nido di preghiera e tutto attorno sibila ciò che è rimasto, lo sgocciolare della pioggia, il vento, le ferite dei rami, le radici strappate: devastazioni. Ma il nido è anche quel luogo stratificato del cinema in cui Gitai si rifugia senza nascondersi: Gitai resta ad ascoltare i corpi martoriati del suo popolo (nell’ospedale), resta a guardare le lacrime che ancora vengono versate nella terra che duole: non attraverserà il mare ma suonerà ancora il suo strumento perchè non esistono più parole e il cinema (come la musica) addolcisce e canta questa eterna sospensione, il fluido della storia che scortica le ginocchia, la sabbia, e torna nel pellegrinaggio di un popolo verso i confini del mare, lì dove un tempo si aprirono le acque.
Tsili non guarda nessuno, ha gli occhi d’edera, senza contatto: sono persi nella paura di un "qui" costante che non arriverà mai: il sogno di una terra promessa.