ruin

Dopo una settimana di festival, i film cominciano a definirsi come un unico grande film, con le storie e le immagini che scivolano l’una dentro l’altra, secondo una muta corrispondenza che sembra passare attraverso l’acqua e, in particolare, attraverso un fiume. Fiume che, in Ruin, Memphis e La belle vie, sembra assumere una valenza metafisica. A comporre altre magnifiche visioni ci sono il bianco e nero di Die andere Heimat e il fiammeggiare di Medeas.

Ruin è una favola dolorosa: l’incontro di due giovani emarginati lungo le strade violente e nichiliste di Phnom Penh, capitale cambogiana. Lui, Phirun, è operaio in una officina e odora di petrolio e cemento, lei, Sovanna, è una prostituta e sa di lungofiume. Amiel Courtin-Wilson e Michael Cody forzano il limitare del cinema, sconfinando nella video arte, per raccontare in un crescente stridore e riverbero musicale il passaggio verso un altrove che stemperi la sciagurata vita di città. La macchina da presa sembra un pennello che assorbe e stende luci e ombre nella notte striata e sgranata, fuori fuoco, fuori campo. La narrazione rallenta e riparte ciclicamente, s’inabissa e riemerge, attenuandosi vicino a un fuoco, dall’altra parte del fiume, dove un sorriso liberatorio si dipinge sul viso infantile di Sovanna.

Chi sorprende, accostandosi con giustezza, per esempio, a certo cinema periferico, come può essere quello della Reichardt, tra l’altro in concorso con lo splendido Night moves, è Tim Sutton, al suo sophomore Memphis. Film oculato, delicato, poetico. La città è quella del titolo. La camera sfila con precisione ed esattezza intorno a una comunità afroamericana dove tutto sembra tendere a Dio. Willis è un cantante che non riesce più a scrivere canzoni. Si trova stretto nella morsa del suo produttore che vuole un nuovo disco e i suoi amici che lo vorrebbero più vicino alla fede. Memphis, così, si rivela un malinconico divagare esistenziale che ripiega sulla riva di un fiume, dove mirare, in totale solitudine, la via della gloria.

Col suo moto lento e perpetuo, il fiume scorre anche nel film di Jean Denizot, La belle vie. Il giovane Sylvain, isolato tra le brume delle colline francesi con suo fratello e suo padre - quest’ultimo ricercato dalla polizia per aver sottratto i due bambini, ora ragazzi, a sua moglie, dopo il divorzio - si concede al flusso della corrente, che fa sosta presso il primo amore, la bella ed esile Gilda, e giunge sino a sua madre, che era solo l’odore della cioccolata calda, in un camper, una mattina d’infanzia.

Quell’infanzia che risplende negli occhi vispi di Jackob, come sogno di una lontana ed eterna estate, rinnovata dalle storie fantastiche dei libri letti furtivamente nella sterminata campagna di Schabbacch, e richiamata dal suono solenne di una lingua rara ed esotica, nel capolavoro indiscusso della mostra, Die Andere Heimat di Edgar Reitz. Visione che fa emergere una sehnsucht mai conosciuta prima. Così è piacevole abbandonarsi subito al vento che gonfia le tende di una finestra aperta sui campi dorati della provincia americana, nei silenzi fiammeggianti di Medeas di Andrea Pallaoro. Rivelazione del festival: mi fa pensare a Reygadas, più accorto e asciutto però, e a Minervini, inevitabilmente, per un comune destino che li ha condotti oltreoceano.