Luigi Abiusi e Matteo Marelli
«Tutto sta per scomparire. Bisogna sbrigarsi se si vuole ancora vedere qualcosa». Su queste parole di Cézanne Wenders chiudeva nel 1983 il corto Letter from New York. Che il pittore francese sia amato termine di riferimento del regista tedesco è cosa nota, lo dimostrano, oltre all’interludio provenzale realizzato per Al di là delle nuvole di Antonioni, le parole dello stesso Wenders che a riguardo dichiarò: «Prima di lui c’era la pittura del Salon: illusione degli spazi profondi, prospettiva rinascimentale... Ogni cosa doveva avere un “aspetto reale”. Cézanne rompe con questo».
Che il suo approccio al 3D fosse quindi riconducibile alla pittura cézanniana era intuibile. Con la chiusa di Les Beaux Jours D’Aranjuez lo dichiara apertamente. Nel finale infatti la macchina va a stringere su una delle infinite variazioni di colore del Mont Sainte-Victoire fino a sbriciolare l’immagine in un pulviscolo di pixel. L’operazione compiuta da Wenders vuole proseguire la riflessione cominciata da Cézanne tesa ad analizzare la logica del visibile, a riflettere sui principi della percezione, o più giustamente a porsi il problema di come rappresentare la percezione. La tridimensionalità, ci dice il regista, è ciò che oggi può consentire a ogni corpo o elemento di raggiungere il grado di esposizione che lo renda massimamente visibile-leggibile (le immagini ci appaiono sagomate, costrette a stampare i loro profili con netta evidenza), di rinascere appunto come valori iconici (una rinascita che contiene però in sé prodromi della prossima scomparsa).
Questo dà forma a una composizione eccentrica, rivelatrice di un’ottica altra. Come lo spazio cézanniano, drammaticamente aperto, illimitato ai suoi confini, Les Beaux Jours D’Aranjuez si muove senza soluzione di continuità tra creazione e atto creativo, una messa in abisso dove la prima porta impresso su di sé, riflettendola, il segno della seconda. «Il paesaggio si pensa in me e io ne sono la coscienza»: così Cézanne a riguardo della propria arte, il cui fine, come riscontrato da Merleau-Ponty, è quello di «dipingere la materia che si sta dando una forma». Come nei suoi dipinti, quindi, anche nel film di Wenders non è possibile alcuna demarcazione: i contorni si muovono in una confusa mescolanza.
E così anche i discorsi, che si confondono con i discorsi (la teoria) sopra la possibilità di uscire dal discorso, verso qualcosa che ha a che fare con un “neutro”, zona di ricodificazione, meticciato dei segni, che sono le tre dimensioni delle cose in sè, l’ottusità apparente di una strada, un parapetto, un jukebox ruminante, cioè la plastica infinitamente dettagliata, formata, dell’immagine, ma anche l’orografia, i colori, la pasta stessa del Sainte Victoire di Cezanne e del pixel che vi cova dentro il nero di un buco in cui cade il film, l’eterno, sacrosanto Neant a presupporre altra origine, creazione, corrispondenza, ricorrenza di segni dialettici vaganti nello spazio-tempo.
Film in transito Les Beaux Jours D’Aranjuez tra racconti di ricordi e sogni d’amore e intermezzi riguardanti geografie, agrimensure, partiture: tutta una meravigliosa e oscena materia frammezzata, frammentata, estemporanea; fatta di perdita di sè, liquefazione dentro il tempo, poesia della fine. E del ricominciamento: i segni che ricadono nella risacca del loro moto e si perpetuano. Per di più Les Beaux Jours D’Aranjuez danza con sorprendente leggerezza, nel 3D e nei movimenti di macchina, e non solo qualdo dal jukebox esce la musica e addirittura l’ectoplasma in carne e ossa di Nick Cave, ma anche nel silenzio del vento e nella luce tra gli alberi, e nella penombra di una stanza che celebra ancora il ritorno al Nulla.