Michele Sardone
Il quasi ininterrotto piano sequenza di Birdman sembra ricalcare la più classica delle tradizionali regole teatrali, l’unità di azione, tempo e spazio nella tragedia. Ma già Angelopoulos e Tarkovskij avevano mostrato come in un unico piano sequenza potessero confluire e convivere tempi ed epoche diverse, accomunati dall’aver avuto lo stesso luogo d’azione, in riva al mare o in una dacia: il cinema scandisce i tempi e declina gli spazi in base al movimento (dello sguardo, nel caso del piano sequenza, anche quando resta immobile, basta attendere una variazione di luce per percepire il trascorrere di una notte in pochi secondi di visione) non secondo l’ordinaria cronologia diegetica.
Eppure lo spazio reclama sempre a sé il suo dominio sul movimento: se in Birdman la camera volteggia libera nel tempo, più difficile è liberarsi del luogo attorno al quale ruota tutta la vicenda (e infatti solo il montaggio riesce in questo senso a staccare da un posto all’altro): il vortice cinetico è intrappolato dentro, attorno, radente lo stabile di un teatro – e in questo, più che ai sopra citati Angelopoulos e Tarkovskij, Birdman sembra seguire l’andamento di Ana Arabia di Gitai, presi entrambi dall’irresistibile attrazione verso un nucleo gravitazionale più allegorico che fisico, dove trovare un significato all’insensato vagare del quotidiano, e al tempo stesso accumunati dalla simile tensione a volersi infine librare in volo, lontano da qualsiasi potestà del cosiddetto “messaggio” che un’opera deve contenere.
Ecco allora la camera cercare di assumere il numero maggiore di punti di vista e movimenti possibili (soggettiva ad altezza dell’occhio, dolly, raso il suolo, carrellate laterali, inquadrature a plongée, dal basso, soggettive indirette, persino irrealistici attraversamenti di ringhiere) nel tentativo, forse, di sfaccettare lo spazio fino a centrifugarne le coordinate e a frantumarlo, polverizzarlo. Una scelta virtuosistica, certo, ma di una virtù appunto ignorante, che vorrebbe ignorare le logiche dello star system, il dispotismo degli incassi e dei blockbuster, le aspettative del pubblico e l’effetto di realtà che spesso a sproposito si vuole affibbiare al cinema. È forse reale lo struggimento di Michael Keaton quando attraverso il suo caricaturale personaggio rimpiange i tempi in cui interpretava un supereroe (l’improbabile Birdman nel film, a sua volta sfacciata caricatura di Batman)? Se lo fosse, dovrebbe scontare, come il suo doppio scenico, il vero peccato di vanagloria che una star di Hollywood commette quando cerca una sorta di affermazione artistica attraverso il teatro: l’attestazione cioè di avere un corpo, e offrire il suo sangue al pubblico vampiresco assetato di spettacolo vero.