Matteo Marelli

altDa Nine Lives of a Wet Pussy Abel Ferrara ha sempre messo al centro del proprio cinema la narrazione della corporeità del personaggio. Gli uomini e le donne protagonisti della filmografia ferrariana sono materia tragica, un coagulo esperienziale e carnale per mezzo del quale l’autore ha potuto affrontare con furia profanatoria l’esperienza registica.
Una profanazione che deve essere intesa nel significato etimologico del termine, ovvero d’incursione, da profano, nello spazio sacro (quello cinematografico), aggredito sensibilmente, fino all’invasività, alla violenza, alla riflessività.


Quello di Ferrara è un percorso registico d’ispirazione teologica, che ricerca il divino intorno all’unico dato rivelato certo: il corpo, irrimediabilmente innervato di dolore e disperazione. La tensione che percorre il suo cinema non è mai verso l’alto, bensì verso il basso, dove il divino scaturisce per contrasto dalla degradazione.
Questo costruire per opposizione verrebbe definito da Fortini sineciosi, figura retorica che egli  individuò come costante strutturale dell’intera opera pasoliniana.
È quindi sacrosanto che toccasse a Ferrara sfidare e confrontarsi con Pasolini, uno dei grandi interpreti della corporeità, colui che, gettandosi nella lotta, s’è reso parte del proprio corpus artistico, facendo di questo un’entità translinguistica che, proprio per la cortocircuitazione dei differenti universi espressivi, è da intendersi semplicemente nei termini di azione.
Del resto, come fa notare Giovanni Giudici, non si può tracciare una distinzione «tra  il Pasolini che narra il viaggio nell’Inferno-Purgatorio-Paradiso dei nostri sconvolgenti, sconvolti e balbettanti decenni e il Pasolini viaggiatore di questo viaggio, attraverso una folla di mostri, diavoli, angeli e compagni più o meno occasionali di strada».

L’urgenza e il coinvolgimento di Ferrara lo portano a concentrarsi attorno quei temi e a quegli episodi del percorso pasoliniano che il regista sente intimamente e stilisticamente più vicini: all’intellettuale che abiura la Trilogia della vita perché costretto a prendere atto della violenza compiuta sulla realtà dei corpi innocenti, manipolati, antropologicamente, dal potere consumistico. Una violenza resasi possibile con buona pace delle vittime. Ma anche all’autore che reinventa formalmente il proprio fare sfidando apertamente le logiche irreggimentanti dell’industria culturale.

Come riscontro a quanto detto il film si apre sulle sequenze, viste in cabina di montaggio, di Salò o le 120 giornate di Sodoma seguite da una ricostruzione dell’intervista realizzata da Philippe Bouvard per il programma Dix de Der, trasmesso dall’emittente francese Antenne 2. Due momenti che inquadrano il clima di tensione belluina, l’odore d’agguato che Pasolini sente tanto attorno a sé quanto alle vite degli altri, un’atmosfera carica di minaccia raccontata, con ancor maggior lucidità, nelle risposte date a Furio Colombo per l’intervista, poi intitolata Siamo tutti in pericolo: è in quest’occasione che Pasolini, fuori dai denti, dice: «io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi».
Ferrara sostiene registicamente tutto questo facendoci respirare un senso crescente di morte recuperando e riproponendo in chiave romana tutta la notturnità cannibalica del suo cinema. Il girovagare predatorio di Pasolini nelle notti di Roma è costellato da schiere di ragazzi in giubbotti di cuoio: licantropi, giustizieri, stupratori; anonimi nella loro meccanica e brutale criminalità. Ombre ambigue e terrifiche, ma comunque reali, esistenti.

Le stesse che infettano le stesure di Petrolio e Porno-Teo-Kolossal, rimaste, causa dell’uccisione dell’autore, incompiute. E proprio da queste Ferrara attinge, non soltanto perché diretta conseguenza di quei sentimenti e quelle atmosfere appena descritte, ma anche per una certa continuità stilistica con il suo cinema. Al di là della tragica irrisolutezza, queste due ultime creature-creazioni pasoliniane sono, in realtà, fin dalla loro ideazione, strutturalmente scomposte, sovrapposte, opere che si contorcono intorno a una con-fusione di piani. Il loro disordine è precisa volontà di deragliamento, di sprofondamento nelle viscere dell’essere e della creazione: discesa senza possibilità di risalita.
E Ferrara non può che trovarsi a suo agio in questa meravigliosa ed essenziale imperfezione, lui che se ne fotte della solidità e della plausibilità tramica, dell’opera compiuta, pur di squarciare ogni suo film con attimi di sanguigna e tenebrosa visionarietà oltre i quali scorgere l’abisso allucinato dell’oscurità mentale.