Luca Romano, Michele Sardone

Alla domanda di Max Brod se ci fosse speranza nel mondo, Kafka rispose che “sì, c’è speranza, infinita speranza. Ma non per noi”. Per chi c’è speranza quindi?





Delle figure si muovono all’interno di uno scenario completamente ghiacciato. I volti bianchi potrebbero essere delle maschere, così come potrebbero essere solo l’esito di una infinita glaciazione. Roy Andersson riversa questo sulla platea, un distacco totale, infinito e ghiacciato. Distacco che non potrebbe esser altro che ironia. L’ironia è il mezzo per cercare d’essere umani, ma “è giusto usare essere umani solo per il proprio divertimento?”. Cos’è quindi l’ironia?
Quale il mistero del riso? Dinanzi alle situazioni tragiche e grottesche del film (che nella loro estrema superficialità divengono eteree, fino a far trasparire l’assurdità che è nella vita e sulla quale abbiamo disteso una secolare patina funerea di supposta civilizzazione) non possiamo fare a meno di ridere. Ci resta una strana inquietudine, simile a quella provata al termine dei precedenti due film della trilogia “sull’essere esseri umani”, I canti del secondo piano (2000) e You, the living (2007) e che mette in gioco noi stessi, la nostra natura umana, non tanto quella dei personaggi rappresentati sullo schermo.

Ridiamo forse perché nei film di Roy Andersson la meccanicità delle scene spesso si inceppa e la loro rigidità formale (fotografia algida, camera fissa e posizionata a mezza altezza, scena perfettamente messa a fuoco, con la profondità di campo data dalla disposizione degli elementi scenici su diversi piani) non fa che mettere in risalto quanto sia assurda la rigidità dei personaggi ad essere inamovibili dai loro comportamenti: e nell’inciampo, nell’inatteso capitombolo, noi veniamo in qualche modo affrancati dalla fedeltà a noi stessi, al personaggio che ci siamo creati dal momento in cui siamo nati.
Oppure ridiamo forse perché Andersson reintroduce nel quotidiano ciò che l’abitudine stessa, (attraverso la reiterazione di gesti e situazioni sempre uguali, tanto da indurci a pensare di pover durare in eterno) vuole rimuovere, ovvero il sentor di morte: e nel mettere in crisi l’assurdità di una tale illusione accade anche che veniamo liberati, per un attimo, dell’angoscia stessa della fine che tutti attende, e un tale sollievo scatena in noi lo spasmo della risata.

Eppure, anche dinanzi alle più convincenti e logiche spiegazioni, l’inquietudine resta. Forse non c’è più alcuno spazio per l’interpretazione della realtà, non c’è più nemmeno lo spazio per i giudizi, tutto è congelato, rimane l’assurdità del gesto, inopportuno e costantemente fuori contesto. Il gesto diventa l’offrire la birra pagata da un morto, ai sopravvissuti; il gesto è cucinare durante la morte del proprio marito in cucina; il gesto è cercare di vendere articoli per fare scherzi senza riuscire a ridere mai. Ma è nell’esser fuori contesto del gesto che l’ironia permane come unica e definitiva caratteristica umana. Non è giusto usare essere umani per il proprio divertimento, e non c’è speranza per nessuno. Ma non resta altro da fare che accettare d’esser fuori contesto, inopportuni: ghiacciati. L'ironia così non è nient'altro che il gesto in sé, fuori contesto, fuori dal mondo, (fragile e incantevole come, nell’unica immagine ripresa dal basso, le bolle di sapone soffiate da due bambine su un balcone, inquadrate come se fossero a bordo di un’invisibile mongolfiera, così vicine eppur distanti, separate da tutto il resto grazie alla loro apparente innocenza), che ci libera dalla sofferenza e ci rende morti vivi e senza speranza, ma con infinita, infinita leggerezza.