Il container come unità fisica di misura attorno a cui si organizza l’economia mondiale. I percorsi di transito lungo cui questo si sposta ridisegnano la mappatura terrestre. Tracciati aventi un’unica coordinata geografica, il profitto mosso da logiche di sfruttamento consumistico. Il mondo non è più pensato come «una casa per tutti, ma un mercato per ciascuno»1.
Il container per il trasporto merci è il simbolo universale della globalizzazione del paesaggio urbano moderno. È attorno a questa immagine che Noël Burch e Allan Sekula hanno costruito The Forgotten Space (parte di un più ampio progetto di Sekula intitolato Fish Story), documentario sull’economia globalizzata presentato alla 67° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e vincitore del Premio Speciale della Giuria Orizzonti.
Lo spazio dimenticato è il mare. Come dichiarato dai due autori: «il mare rimane lo spazio cruciale della globalizzazione. Da nessuna parte il disorientamento, la violenza e l’alienazione del capitalismo contemporaneo sono più evidenti»2. Le navi-cargo impegnate su tratte transoceaniche sono la longa manus della politica neocapitalistica, della dittatura consumistica; queste diventano i pilastri della nuova catena di distribuzione globale. I due registi ci fanno seguire i container a bordo di navi, chiatte, treni e camion che percorrono l’intero pianeta, disegnando mappe che stravolgono il territorio, aventi un’unica coordinata geografica, il profitto indiscriminato mosso da logiche predatorie.
Un viaggio attorno al mondo raccontatoci dalle voci di quegli anonimi lavoratori che gravitano ai margini del sistema dei trasporti: come gli agricoltori del Belgio e dell’Olanda costretti ad assistere inermi alla riconversione delle loro terre in aree di transito; o i camionisti di Los Angeles remunerati al minimo salariale; e i marinai impiegati nelle traversate transcontinentali costretti a sopportare una situazione di apolidismo. La mutazione antropologica è senza precedenti: «il risultato antropologico della globalizzazione cioè la sintesi logica dell’umanità in unico possente genere e la sua rie in un compatto e sincronico mondo del traffico, è il prodotto di un ardito e convincente lavoro di astrazione e di ancor più arditi e vincolanti movimenti di traffico» (Sloterdijk 2002, p. 158). Il corso della globalizzazione sbalza in modo imprevisto gli esseri umani lontani dal centro, trasforma i mondi della vita, città, villaggi in gelide e asettiche ubicazioni sulla superficie del globo che non è più «una casa per tutti, ma un mercato per ciascuno» (ivi, p. 166).
Ad un anno di distanza alla Mostra del Cinema di Venezia si torna a riflettere sugli effetti del capitalismo. Nel corso della precedente edizione era stato Michael Moore, con Capitalism: A Love Story, a cercare di andare alle radici della crisi economica globale. Una crisi che, nonostante quanto promessoci, ha strascichi più lunghi e negativi di quanto previsto. Tornare, quindi, a mettere sul banco degli imputati un sistema economico che continua a mostratosi fallace è un’operazione più che legittima. Ancor più se a condurre la requisitoria sono due figure di spessore quali Noël Burch e Allan Sekula. Meno mediaticamente ingombranti e astuti rispetto al collega di Flint, i due registi di The Forgotten Space preferiscono lasciar passare lo stato d’emergenza per poter riflettere con la dovuta pacatezza, non chiedendo sconti in ragione dell’urgenza del soggetto. A Burch e Sekula non interessa trovare un capro espiatorio contro il quale agitare i propri indici ammonitori con buona pace di tutti. Rifiutano la “docuguerriglia” caustica e provocatoria alla Moore, che per ottenere un consenso e scuotere il pubblico non va per il sottile e utilizza sequenze di forte impatto costruite manipolando con un’impressionante disinvoltura il “materiale umano” e una tecnica argomentativa che punta all’effetto immediato.
I due autori di The Forgotten Space preferiscono un avvicinamento progressivo e ragionato al cuore del problema; la loro analisi è ad ampio raggio e cerca di concentrarsi attorno ai meccanismi e agli effetti innescati da questi. Il loro lavoro è scrupoloso e testardo, non c’è traccia di approssimativismo. Le immagini, che si devono all’esperienza di Sekula nell’espressione fotografica, sono straordinarie (su tutte il variopinto mosaico di colori composto dalle migliaia di container stipati sulle navi merci); il testo non è mai commento didascalico, ma vero e proprio saggio. Il risultato è un’opera aperta sottoforma di lucida analisi e sostanziata denuncia. L’approccio didattico all’argomento, adottato dai due registi, non inaridisce la calibrata messinscena in cui cortocircuitano anche inserti di film classici americani che concorrono alla serrata requisitoria dello “stato delle cose”. In questo documentario l’indignazione, mai imposta e urlata, cresce per gradi e spontaneamente.
Note
1Noël Burch e Allan Sekula, in http://www.theforgottenspace.
2Ibidem.
Bibliografia:
Sloterdijk P. (2002): L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci, Roma.