Lorenzo Esposito
Paul Schrader infrange la passeggiata newyorchese di Manhattan con uno slittamento letteralmente octopus, agitando braccia-microcamere che sfidano e in qualche modo desertificano la propria stessa ansia di controllo.
Sono i canyons dello sguardo: spostamenti inquieti e inquietanti d’un occhio vitreo, vuoto, prosciugato, raddoppiato, impiantato, epidemico come il continuo dislivello d’una città dalla gittata emozionale e luminosa incalcolabile e insieme così misera e superficiale da lasciare senza parole (less than zero, appunto). È Schrader che con Canyons prosegue la riflessione, ancora spacciatore, walker e gigolo, lavorando sulle crepe oblique dell’identità, fra sale vuote e strade piene di fantasmi, riprendendo il discorso dove ci avevano lasciati il De Palma di Passion e il Soderbergh di Side Effects. E se il romanticismo scultoreo di Godard-Lang non è più possibile, prevarrà una morte in vita, ben poco accordata ai nostri desideri, pronta a fagocitare e non più a sostituire il nostro sguardo, che si avventura così in questo nuovo accecante mépris.
Vedi, guardi, ma non vedi e non guardi nulla. E Los Angeles sembra Capri. E Lang non c’è più, anzi non c’è più regista, ma produttori anonimi e diffusi, attrici e attori in vendita, copioni da quattro soldi, provini inutili, scambi di coppia, rimossi anali. E lo spiato e minacciato è in realtà il doppio del suo pedinatore e ne subirà il contagio, riprendendo il circuito che sembrava spezzato. Ridotto all’angolo come un quartiere di sale cinematografiche chiuse e abbandonate, riaccende il proiettore, manda a carpire informazioni una seconda ragazza in sostituzione e raddoppio della prima, mabuse mabusizzato (come tutti noi: in autofocus).
È della morte che stiamo parlando? Della morte in forma di identità opaca, falsamente scintillante, che cambia inavvertitamente paesaggio e luce, proprio come il Sunset Boulevard che in tutta la sua lunghezza contiene almeno dieci città differenti (Wilder insegna; e una traversa non lontano dall’Oceano è Mulholland Drive). Rigorosa e necessaria malinconia, che tocca, come pochi altri negli ultimi anni, il punto misterioso in cui il cinema avanza indipendentemente da quanto è scritto (genialmente peraltro da Bret Easton Ellis) il suo incedere, anzi quasi cancellando i passi a ogni nuova deviazione, facendo di ogni passo un trapasso, caduta libera in fossati e abissi e tunnel ramificatissimi ma invisibili. Da qui la moltitudine disperata della cultura tablet, che cerca di trattenere ciò che è fatto per sfuggire e sparire, l’immagine questa sconosciuta (così Christian scompare e Ryan è lì rannicchiato che ci guarda dritto negli occhi un’ultima volta prima dei titoli di coda in forma di sale come scheletri, che piacerebbero all’Erice di La mort rouge). Resta da capire quale spazio resta concesso allo spettatore, ammesso che sia pensabile anche solo esistere.