Gemma Adesso e Michele Sardone
223 frustate, 20 milioni di riyal, 1 anno di carcere: questa la pena inflitta dalla giustizia iraniana a Keywan Karimi per aver offeso la sacralità islamica con il suo documentario Writing on the City (2015), cha racconta trent’anni della storia dell’Iran attraverso i graffiti sui muri di Teheran, dalla rivoluzione islamica del 1979 alla rielezione di Ahmadinejad del 2009.
Della pena (articolata e pervasiva: vengono coinvolti corpo, denaro e libertà) colpiscono, ancor prima di essere inferte, le 223 frustate, un numero esatto, misterioso e grottesco nella sua quantificazione, un numero primo: la punizione può essere eseguita senza che se ne perda l’esattezza una sola volta o frazionata in 223 parti eguali. La spiegazione “contabile” della pena, come si sia arrivati a un numero così preciso di frustate, è inattingibile: una frustata per ogni scritta blasfema apparsa nel documentario? O per ogni fotogramma? (il cinema come morte al lavoro a 223 frustate al secondo...).
Tutto questo fardello assurdo e tragico non poteva non sovrapporsi e riflettersi nell’ultimo film di Karimi, Drum, fatto appunto di immagini e controcampi che si sovrappongono, su superfici riflettenti, in una sola inquadratura; allo stesso modo, l’insistenza con cui la camera mette tutto a fuoco (esasperando traiettorie e architetture e allontanando all’infinito utopici punti di fuga dello sguardo) e la lentezza con cui si muove sui volti e sui corpi (movimento lento mantenuto anche per non perderne il focus) non fanno che ribadire che ogni cosa, anche la più scabrosa è di per sé sotto gli occhi di tutti e a tutti ben nota e intelligibile, seppur sottaciuta in un regime di controllo diffuso (non specificatamente quello iraniano: decontestualizzare l’ambientazione non rende l’atmosfera più astratta bensì l’appesantisce sotto la pressione di una inevitabile condanna).
Ma, se ogni cosa è visibile, niente sfugge al sospetto che qualcosa venga nascosta (resta inattingibile il contenuto di un pacchetto attorno al quale si disegnano traiettorie sotterranee e possibilità di fuga). Quel che accade lo vediamo spesso attraverso una porta aperta, lasciata forse così per noi, in modo da farci entrare all’interno di queste architetture di ombre come testimoni presenti e inermi. Un bianco e nero luminosissimo asseconda l’intermittenza cardiaca e le luci scandiscono una precisa sequenza pulsionale: dal perimetro rotatorio di una stanza allo spazio rettilineo che si spalanca fuori dalla finestra, il battito non si arresta. L’ossessione per il punto di fuga implode nel ritmo di pilastri e putrelle, nei sibili di porte spalancate e di finestre plumbee e di salite, in un arrancare di vento che dà la vertigine.
Ad ogni sacrificio corrisponde un’abluzione: la mdp danza in movimenti circolari, ondeggianti; in una sospensione di lama, il suono della luce è il presagio del vuoto che incombe, tanto claustrofobico quanto più l’immagine limpida di una vetrata mette in chiaro ogni pensiero e ogni azione, interno ed esterno, carne e ossa. La luce batte e smaterializza i corpi in una evanescenza che diventa l’unica possibilità di sottrazione al colpo: dal mistero della pietra al ritmo cardiaco, tutto viene sondato da piani sequenza radiografici, tutto è ombra.