venus_noireÈ un percorso esistenziale in caduta libera quello di Saartjie Baartman, più conosciuta come Venere ottentotta. Quello che compie è un inarrestabile inabissamento che dai sobborghi londinesi, dove interpreta la parte dell’osceno fenomeno da baraccone, la porta prima ai salotti libertini parigini, a soddisfare le pruriginose voglie della buona società borghese, e poi giù, sino ai più squallidi gironi postribolari. Una progressiva distruzione che non si arresta neppure una volta morta. Il suo corpo, venduto all’Accademia reale della medicina di Parigi, è sezionato per dare legittimità scientifica alle più estreme teorie del “darwinismo sociale”.


«Si preferisce l’immagine alla cosa,
la copia all’originale,
la rappresentazione alla realtà,
l’apparenza all’essere»
(Ludwig Andreas Feuerbach, Prefazione alla seconda edizione di L’essenza del cristianesimo)

 


Abdellatif Kechiche torna a riflettere con Venus Noire (in concorso alla 67° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia) sulle dinamiche di dominazione che intercorrono tra Europa (potenza dominante) e Africa (mondo dominato). Una riflessione già avviata con La schivata (2003) e proseguita con Cous Cous (2007).
 Il terreno di scontro questa volta è il corpo di Saartjie Baartman, donna di origini sudafricane, nota, al pubblico londinese e alla buona borghesia francese di fine ‘800, come la Venere ottentotta. Saartjie è rappresentazione femminilizzante ed erotizzata delle terre conquistate. È parte in causa di un processo di simbolizzazione del rapporto tra i generi, cioè del dominio maschile sul genere femminile, attraverso il quale il potere coloniale è riuscito a far passare, come se fosse l’ordine naturale delle cose, la propria violenta prevaricazione sulle terre colonizzate (Stefani 2007).

Come il John Merrick raccontatoci da David Lynch in The Elephant Man (1980), anche Saartjie è affeta da “deformità”, almeno secondo i canoni estetici europei dell’epoca. È una donna africana e in quanto tale ha molto sviluppate tutte quelle caratteristiche fisiche che sono motivo di morbosa attrazione da parte degli occidentali: natiche prominentissime e rialzate e piccole labbra altrettanto sviluppate chiamate appunto “grembiule ottentotto”. Il percorso a cui è costretta Saartije si muove sulla falsariga di quello del protagonista del lavoro lynchiano. Anche lei è un freak, un fenomeno da baraccone esposto al pubblico ludibrio della folla, che quotidianamente intasa il carrozzone dov’è costretta a esibirsi alla gogna, ad essere quella caricatura che tutti quanti in lei vogliono vedere. Costantemente violentata e oppressa dallo sguardo degli altri, a cui è costretta ad asservirsi e conformarsi. Una donna reificata e violentata da un’intera società, invasa dalle metastasi di un immaginario coloniale, che la usa per dare corpo ai fantasmi esotico/erotici di un’Africa selvaggia e primitiva. Quella a cui è chiamata a dar corpo è un’immagine scelta dal potere, giustificatrice dell’assetto istituito, che si sostituisce completamente alla realtà. Saartjie deve rinunciare alla propria personalità per poter essere accettata. Sono i prodromi di quella che poi si configurerà come la società dello spettacolo: «l’ideologia per eccellenza, perché espone e manifesta, nella sua pienezza, l’essenza di ogni sistema ideologico: l’impoverimento, l’asservimento e la negazione della vita reale» (Debord 2004, p. 180).

A problemattizzare la figura di Saartjie è la sua volontà di non accettare il facile ruolo della vittima. È sì una donna violata in tutti i modi: studiata, toccata, umiliata, violentata fisicamente e psicologicamente; eppure i rituali di sottomissione a cui è sottoposta non sono soltanto subiti, ma anche assecondati. C’è, da parte sua, una tacita accettazione dei soprusi inflitti. Un’impressione che trova conferma nei fatti quando Saartjie rifiuta volontariamente l’aiuto dell’African Institute di Londra e discolpa il suo “padrone” durante il processo cui viene sottoposto per maltrattamenti dalle autorità britanniche. La fuga dai sobborghi londinesi non la libera però dagli sguardi svilenti e degradanti a cui era obbligata a conformarsi. Catapultata nei salotti libertini parigini si ritrova ancora a dover dar corpo alla diversità. Una diversità però vista con lascivia; Saartjie diventa oggetto di desiderio, bersaglio di appetiti erotici. Ad elevarsi è soltanto il ceto sociale di fronte al quale esibirsi, perché in realtà il percorso compiuto dalla protagonista ha un’inarrestabile traiettoria discendente che la fa precipitare nei gangli oscuri della prostituzione:

«I potenti desiderano desiderare. Invano. Per sostenere la finzione del loro desiderio, essi convocano, nel modo più violento, il corpo popolare per interrogarne [...] il segreto, supponendo in esso un godimento da controllare e di cui nutrirsi» (Daney 1976).

È una progressiva distruzione quella a cui è sottoposta Saartjie, che non si arresta neppure una volta morta. Il suo corpo, venduto all’Accademia reale della medicina di Parigi, è sezionato e usato dall’anatomista Georges Cuvier per sostenere e dare legittimità scientifica al concetto di inferiorità di razza. Estremizzazione razzistica del “darwinismo sociale”, esempio di biologia applicata alla politica avente come fine quello di avvalorare e, quindi, giustificare l’oppressione perpetuata dall’Occidente contro gli africani. Esempio di degenerazione positivista che conduce ad una radicalizzazione del pensiero niente affatto razionale.
Come scritto in apertura, Kechiche aveva già riflettuto sulle dinamiche di dominazione. A cambiare è il registro del discorso, che si fa duro, inflessibile nella sua condanna. Registicamente questo si traduce in una riproposizione continua degli spettacoli di Saartjie. La coazione a ripetere è resa per mezzo di una reiterazione ossessiva di quelle esibizioni, che sottopongono lo spettatore alla stessa tortura subita dalla protagonista. Venus Noire è una spietata analisi delle logiche di sfruttamento della società dello spettacolo. Kechiche ci costringe, ricordandoci il nostro diretto coinvolgimento in quanto complici invisibili che si muovono ai margini della rappresentazione, ad una riflessione etica sulle dinamiche spettatoriali; a prendere consapevolezza delle responsabilità insite nell’atto del guardare, generante rapporti di potere, tendenzialmente portato alla riduzione di un soggetto ad oggetto. Spettatore, dunque, come consumatore di immagini-merce, che preferisce lasciarsi assorbire e catturare da cliché securitari così da permettergli di schivare un reale incontro con l’altro.

Il regista rinuncia allo stile quasi dardenniano del precedente lavoro, a quello sguardo partecipe la cui cifra espressiva era una macchina da presa letteralmente incollata ai volti. Ora ha necessità di prendere le distanze dalla propria protagonista, perciò l’obiettivo se ne distanzia, per aprirsi in inquadrature che diano risalto al contesto, alle figure di contorno, elementi essenziali sui quali appoggiarsi per formulare il proprio atto d’accusa. Questo allontanamento permette a Kechiche di rendere il personaggio di Saartjie estremamente misterioso. Preferisce non romanzare, non personificare la sua protagonista, mantenendo un alone opaco sulla sua anima. Evita il facile psicologismo, fa sì che il carattere della sua eroina emerga fenomenologicamente soltanto dal suo agire. Spogliata così da qualsiasi didascalia o spiegazione, Saartjie appare votata ad un arcano distacco, ad un’assoluta abnegazione, tanto da riuscire a conservare pudore anche nel suo quotidiano prostituirsi. Kechiche persegue un cinema capace di smontare il dispositivo propagandistico della costruzione di immagini funzionali alla colonizzazione di un immaginario collettivo volto ad orientare lo spettatore verso l’adesione agli assiomi manichei di un progetto imperiale.


Bibliografia:

Daney S. (1976): A proposito di Salò o le 120 giornate di Sodoma, in "Cahiers de cinema", n. 268/269, 1976, http://www.pasolini.net/saggistica_GBertolucci_CahiersCinema.htm 

Debord G. (2004): La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano.

Stefani G. (2007): Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre Corte, Verona.