A Wang Bing riesce quello che i matematici hanno dimostrato essere impossibile, ovvero far quadrare un cerchio. La circolarità temporale della ripetizione, il loop della coazione alla quotidianità di giorni sempre uguali cui sono costretti i reclusi di un manicomio dello Yunnan (stessa regione cinese del suo precedente Three sisters) trova la sua perfetta spazializzazione, coincidente nel camminamento quadrato che viene percorso in continuazione, notte e giorno, dalle figure evanescenti dei condannati all’inferno.
E la camera a correre dietro, o meglio, dietro e sempre dal basso, come a voler rovesciare lo sguardo (dall’alto in basso) con il quale solitamente i malati di mente (non) vengono visti. Imprigionato nello spazio chiuso, il tempo si morde la coda, finché, sfinito, si ferma. Non è rassegnazione, è piuttosto un’illuminazione: collocare eventi e azioni secondo un prima e un dopo è solo un’illusione, si può vivere unicamente nel qui ed ora. Viene meno la memoria e con essa il risentimento e il pudore: perché vergognarsi di qualcosa se poi nessuno potrà ricordarla e quindi rinfacciarla? Ecco affiorare forme basiche dell’umano, ridotto alle funzioni corporali e ai bisogni primari. La necessità della parola e la condivisione di un discorso arrivano dopo, quando la creazione di un nuovo spazio si rende necessaria. Poi una piccola divagazione, un recluso esce per un permesso, ma è solo la classica eccezione che conferma la regola: non si può fare a meno di camminare, ma andando avanti si viene inghiottiti dal buio.
Ed è proprio dal buio che Wang Bing vuole preservare i reclusi, costringendo chi non vede a farlo per quasi quattro ore, vero esercizio penitenziale di sopportazione, la maniera più sincera per entrare in comunicazione con la sofferenza. Si viene circondati dallo stesso movimento di camera, si entra nella medesima condizione di immobilità. La libertà non esiste di per sé, non è un’ideale da raggiungere, piuttosto uno spazio da reinventare e da sottrarre al quotidiano.