Michele Sardone

Maresco ha girato probabilmente il suo F for fake: come nel film di Welles, ad essere messa in questione è la supposta distinzione fra verità e finzione, fino alla conseguente trasvalutazione di valore tra ciò che è originale e la sua copia. Un fake è sicuramente Belluscone, un suono emesso dalla voce del popolo che lo idolatra, che lo ha fatto divenire immagine e simbolo di un sogno, divenuto poi sogno berlusconiano, a sua volta copia italiana dell’originale americano; un simbolo che diviene autonomo dal suo calco originario, un suo doppio, tanto che del Berlusconi vero, originale, poco ci interessa e ancor meno resta da dire, dato che di lui ormai tutto è già dato sapere.

Eppure Belluscone nega continuamente se stesso, quel che sembra un punto d’arrivo subito viene confutato. Non appena si pensa di sapere tutto su di lui, dato che tutto è già stato detto e acclarato (dalle connivenze mafiose alla creazione del suo partito politico fino alla trattativa stato-mafia) ecco che d’improvviso, durante un’intervista a Dell’Utri, vien fuori una scheggia luminosa, uno squarcio su uno dei tanti misteri d’Italia insoluti: un coinvolgimento di B. (la lettera appuntata come nelle cronache giudiziarie a lui dedicate) nell’affare Mattei. Ma come ci si può fidare della fonte? Lo stesso registratore (strumento per eccellenza della riproduzione dal vero) sul quale viene incisa la rivelazione, sembra non crederci e non riesce a sostenere il corto circuito fra vero e falso, e somatizza lo shock con un corto circuito non più metaforico. Marcello Dell’Utri è credibile? O non è forse egli stesso autore di madornali fake (il capitolo mancante di Petrolio di Pasolini; i diari segreti di Mussolini…). Del resto non dovremmo aver bisogno di ulteriori chiarimenti sul passato di B. (che stavolta ritorna ad essere un fonema wellesiano: B. for Berlusconi), basterebbe l’evidenza stessa dell’immagine, la sua luminescenza rischiaratrice: evidenza che nel film viene costantemente negata, aggirata, schernita.
Eppure per paradosso, la negazione dell’evidenza è il modo migliore per affermare l’evidenza stessa: ad esempio, più si nega l’esistenza della mafia e più viene avvalorata la sua forza opprimente, il suo potere tentacolare e grottesco, al quale nessuno, anche coloro che sembrano non avere nulla da temere, sembra possa sottrarsi.

Belluscone
è, ancora, la negazione della possibilità di fare un documentario. Non potendo parlare di Berlusconi, Maresco cerca il suo doppio nei luoghi in cui possa essere evocato il fantasma di Belluscone, nelle manifestazioni di popolo, ovvero nei concerti (inquietanti come riti necromantici) del quartiere Brancaccio di Palermo. Ciccio Mira, l’impresario dei cantanti neomelodici che vi si esibiscono (“ma esistono veramente?” “Cosa vuol dire neomelodico?” Non lo sanno nemmeno i cantanti stessi), affiliato mafioso e sostenitore berlusconiano, pare ascrivibile a quei personaggi indecifrabili da documentario d’inchiesta, simile un po’ a Donald Rumsfeld in The unknown known di Errol Morris, soprattutto per la stessa consistenza saponosa, sgusciante (sebbene Rumsfeld abbia una raffinatezza di linguaggio che manca a Mira, il quale si limita a negare e non rispondere, a farsi scivolare addosso la domanda); Ciccio Mira ha però dalla sua il potere di spegnere, con la sua sola comparsa, i colori dell’immagine e di ciò che gli sta attorno, rendendo tutto grigio, indistinto e imperscrutabile, in un grigiore nel quale spesso si immerge in dissolvenza.  

Belluscone
è infine un’opera in cerca d’autore, il quale si ritrae dalla scena, e in questo movimento di sottrazione si autoritrae in scena, come mancanza, come vuoto necessario perché l’opera stessa possa darsi, essendo impossibile qualsiasi presa di posizione autoriale e qualsivoglia intenzione di dare una direzione esogena al film. Ciò che resta di Maresco è la voce, ma anche questa alla fine vorrebbe solo spegnersi e tacere, affidare la narrazione ad un affabulatore più bravo. La voce si accomiata da una rappresentazione che non è per lei più narrabile, troppi ineffabili garbugli, troppa opprimente inconsistenza. Azzerata ogni parola, non resta da chiedersi se sia possibile per la critica parlare di un film che sceglie di non parlare, con il dubbio che il lavoro critico non sia altro che un parlarsi addosso; ma pure la critica all’impossibilità di far critica non è forse, più che una resa, un desiderio di deresponsabilizzazione dell’analisi dinanzi a un qualcosa che non vuole farsi analizzare e nominare? – sia questo “qualcosa” un film, un autore, la mafia, il paese in cui si vive e nel quale è impossibile vivere, pare, se non nella completa afasia?