Valentina Dell'Aquila

Scriveva Jay Ruby: sarebbe proprio la maniera marginale di praticare e interpretare un certo tipo di cinema per così dire storico-documentaristico a contribuire alla disfatta dello stesso; maniera, probabilmente poco interessata alla stessa istanza che lo muove, fors’anche carente di teorie, di  poetiche oltre il dato… Nello stesso volume si citava l’assunto di Heider & Hermer secondo cui all’immagine sarebbe necessario integrare il mezzo della scrittura affinché questa si possa definire efficace strumento d’apprendimento.


Oltre le varie posizioni, le diverse necessità di categorizzazione sul genere, quel che Morrison (ancora) tenta è una elusione dalla nozione stessa da cui muove, una scrittura come didascalia continua e senza voce. Evasione non dal significato, ma dal racconto stesso, che sfilaccia e deframmenta in più nature, rompendo l’ordine lineare, affollandosi di possibilità e incursioni, per cancellare, o meglio, ritornare al ritaglio all’inizio abdicato. Alcuna la ragione di legarsi a più mondi. Alcuna la ragione di incurvarsi per più clivi. Oppure: cinema proprio in questo.  A partire dal ritrovamento nel 1970 di più di 500 pellicole 35 mm (perlopiù film muti e un rarissimo footage della baseball World Serie del 1919) nascoste sotto la pista di hockey del D. A. A. A. Family Theatre di Dawson city tra il 1910 e il 1920, Morrison racconta la corsa all’oro del 1896: the Klondike gold rush, avvenuta nei medesimi territori (Canada nord est: Dawson City, già ambientazione del noto western The Far Country – A. Mann, 1954), quindi la primissima rimozione dei pescatori nativi dall’area compresa tra i fiumi Yukon e Klondike, i nuovi insediamenti di ricerca aurifera, la massiva ondata di immigrazione che ne seguì (tra il 1896 e il 1900 Dawson City contava 30.000 abitanti), un nuovo altissimo costo della vita, un apogeo dell’edificazione durato sino al 1910 - data di cessazione dell’attività mineraria. La nuova archeologia della pellicola ritrovata, non è che la forma resistente di una rovina, un cinema della rovina. Ginsberg parlava dell’esperienza della rovina spiegando come, nel trattamento dei film danneggiati, le istituzioni tenderebbero a enfatizzare la necessità di preservare, restaurare, o l’urgenza di ricercare il fotogramma mancante, quindi completare anziché godere dell’assenza, dell’esposizione del frammento negato. L’integrità anziché il pathos della deprivazione. Il tempo cinematico va modificandosi nella compilation, nel footage, e questo è quel che avviene in Morrison: il tempo va cristallizzandosi, addensandosi, aggregandosi – come polvere molecolare, come polvere di rovina – ricomponendosi in un tessuto temporale nuovo, astratto, distaccato, investito solo del suo sentire (il tempo), dal suo sentirsi (tempo). Il recupero e il conseguente restauro dei nitrati danno qui vita a una nuova estetica cinematica, quella del sedimento, del decadente (estetica che lo stesso Morrison ha più volte riportato, da Light is Calling (2004) al precedente Decasia: the State of Decay (2002) di cui non a caso si scriveva: sì, il cinema ha un futuro, e questo può anche essere ritrovato nel profondo passato: un footage interamente composto in cellulosa al nitrato (poi riversata in digitale), materiale il cui uso  – data l’alta infiammabilità – fu letteralmente abbandonato intorno ai ’50. Ed è appunto in questo recupero, in questa decadenza del mezzo, in questa pericolosità del supporto, l’idea stessa di cinema come incendio o meglio sarebbe dire: dell’incendiarietà del cinema (tant’è che in Dawson City più volte switchano panoramiche su still di pellicole in fiamme, filmati amatoriali di fine ‘800 con teatri e biblioteche arsi in cumuli fiammati), e il film del resto (si) anticipa veggente con una scena tratta da Polly of the circus (1917) (pellicola ritrovata a sua volta durante gli scavi del ‘70): una tenda da circo ci prende fuoco in faccia, e questa tenda, questa fiamma divorante di occhi non è che il nostro schermo che ci si infiamma dinnanzi: lo sguardo ci arde, e il cinema (si) brucia. Si diceva della pellicola come assemblaggio di rovine, deprivata, porzionata, sedimentata, raschiata, incidentata, che, nel suo ridursi a detrito nascente, rimanderebbe metaforicamente alle aurifere e sabbiose emersioni del Klondike: archeologia dell’oro, archeologia della visione…  Qualcosa di spettrale poi narrare le pellicole attraverso deframmentazioni ricomposte delle stesse: from gold to dust, e viceversa.