cirkuscolumbia«Qualche volta sento che nel 1992, quando cadde il comunismo, ci siamo ritrovati sul bordo di un abisso. Il resto del mondo guardava in silenzio dall’altra parte. Siamo stati costretti a saltare, ma non siamo arrivati dall’altra parte. Stiamo ancora cadendo» (Denis Tanović).

«Mentre i mezzibusti non trovano accordo, versione di Caino,
la macchina della storia fa dei cadaveri il suo carburante» (Joseph Brodskij, Tema della Bosnia).

No Man’s Land, Triage, Cirkus Columbia. Durante, dopo, prima. La trilogia sul conflitto nei Balcani di Tanović è un viaggio di ricognizione nel “buco nero” della storia recente dell’Est Europa, che, a distanza di vent’anni dal suo tragico inizio, grava ancora sulla coscienza di chi non fece abbastanza per evitarlo (l’Onu, la Nato e l’intera comunità internazionale). La scelta temporale compiuta dall’autore non è cronologica. In quanto gli stadi della memoria, che sfuggono ad ogni criterio di ordine e razionalità, sono dettati invece dall’emozione e, a volte, dalla casualità.


Ecco dunque che si rammenta con più agilità ciò che è accaduto, perché si è visto e vissuto direttamente (il regista entrò a far parte dell’Armata bosniaca come operatore audiovisivo). Mentre tutto ciò che è successivo si riesce a mettere a fuoco solo nella contingenza di un dramma geopolitico che produce disgregazione umana e morale prima ancora che territoriale: più di duecento mila morti e due milioni di profughi. Il terzo ed ultimo stadio coincide con ciò che è stato, il più difficile da traguardare, poiché il trauma postbellico porta inevitabilmente con sé la rimozione del pregresso.

In Cirkus Columbia Tanović si sforza di lavorare lungo le crepe squarciate dal (sempre labile) ricordo involontario, per colmare un vuoto a lungo sedimentatosi e sottrarlo al rischio dell’oblio. Non ripercorre filologicamente le fasi della contesa fratricida, né indaga i motivi all’origine dello sfaldamento di una nazione. Né tanto meno mostra i primi frangenti armati. Nel momento stesso in cui la guerra viene concepita dall’immaginario collettivo come qualcosa di impensabile e imprevedibile, questa diventa irrappresentabile (Sorlin 1980). È possibile, piuttosto, riportarne o suggerirne l’atmosfera, il terrore, l’assenza, come nello Sguardo di Ulisse di Theo Anghelopulos. È vero che l’ex Jugoslavia era già stata segnata da fatti nefandi, sia in Slovenia che al confine tra Serbia e Croazia (nell’ottobre del 1991 i serbi assediarono e bombardarono la città di Dubrovnik), ma nessuno poteva supporre un coinvolgimento della popolazione della Bosnia Erzegovina.
Prima appunto che quel perimetro di terra compreso tra i fiumi Sava e Drina si tramuti in teatro di scontri per tre lunghi anni, e cioè fino alla fine del ’95, (Vukovar, Srebrenica, Mostar, Sarajevo sono solo alcune delle dolenti tappe), meglio preservare il ricordo di un’umanità ancora integra, solidale e felice. La Drina, descritta in modo sublime da Ivo Andrić (quando durante la Seconda guerra mondiale le sue acque insanguinate portavano i cadaveri di migliaia di slavi musulmani uccisi dai cetnici) taglia in due i Balcani, un’area dove storia e geografia si sfidano a vicenda. E traccia una linea di demarcazione tra il vecchio Impero d’Oriente e quello d’Occidente, una frontiera tra cattolicesimo e ortodossia, tra Cristianesimo ed Islam (Matvejević 1995, p. 10).

In Cirkus Columbia un piccolo paese bosniaco, da microcosmo a parte, ignaro o meglio incredulo dell’imminente guerra civile (anche in La vita è un miracolo di Emir Kusturica c’è una simile distorta percezione della realtà), si erge a metafora di un destino balcanico votato all’odio e alla sopraffazione. Qui, Divko Buntić, appena tornato dalla Germania dopo vent’anni di esilio in compagnia della sua nuova ed appariscente compagna Azra, pretende con la forza la restituzione della casa dove abita la prima moglie, Lucija.
Per completare il suo piano di vendetta contro la donna, rileva il suo negozio di parrucchiera e cerca di allontanarla dal figlio Martin, convincendo quest’ultimo a trasferirsi da lui. Intanto, serpeggiano nel villaggio i prodromi della crisi, tra episodi di intolleranza e corruzione: l’ex sindaco comunista Leon viene aggredito da una banda di irregolari; mentre, il capitano della caserma, Savo, è invitato a sposare la “vantaggiosa” causa serba da un capo dell’esercito jugoslavo.

Come in No Man’s Land, dove lo spazio geometrico del conflitto era quello angusto della trincea, Tanović smaschera la follia e l’insensatezza delle rivalità etniche. L’assurdità e la banalità del Male, che si annida nell’anima di popoli abituati a co-abitare in una realtà paritetica. Multietnica e multireligiosa. Due grandi gruppi che convivevano nella Bosnia orientale, serbi e musulmani (slavi islamizzati sotto l’occupazione ottomana), si scoprono nemici. L’uomo della porta accanto può trasformarsi in un guardiano di campo, in un torturatore: Martin viene arrestato dal suo migliore amico, Pivac, arruolatosi in un’unità paramilitare che combatte in difesa della Croazia. Uno di quei tanti gruppi reclutati senza alcun controllo, che assoldavano mercenari e criminali comuni.

Odio, vendetta, arroganza, orgoglio, avidità sono come le mine di uranio impoverito che fecero detonare i soldati una volta chiuse le ostilità per “bonificare” i campi di battaglia. Prima messe a covare in apposite fosse, poi fatte brillare in cielo, a contagiare come veleno ogni metro di terreno che incontravano. Questo “veleno” pronto ad insinuarsi letalmente tra le genti, a propagarsi come un «fungo» (Arendt 2007, p. 36), e a dividere così famiglie e relazioni umane, fu il vero incipit della polveriera balcanica. Le ataviche tensioni fra differenti etnie furono in realtà soltanto il presupposto sul quale i media e il governo (delle varie repubbliche), con la propaganda, cementarono la loro opera di manipolazione della verità. False promesse, inganni, ideali traditi. E ancora, speculazioni e ipocrisie. Il nazionalismo aggressivo e isterico di uomini come Miloŝević, che raggiunse il potere con il «pervertimento della libertà» (Stevanović 1999, p. 57), rappresentava infatti una maschera dietro cui si celavano altre cause di natura socio-economica.

In Cirkus Columbia, l’obiettivo del regista “sorprende” i suoi personaggi in quel particolare momento che precede l’avvento improvviso di qualcosa dalla portata incommensurabile. Qualcosa non di endemico, ma dal respiro universale, in cui si possono riconoscere tanti altri scenari bellici moderni, anche mediterranei, non ultimo quello odierno della Libia. Una tragedia umana tristemente condivisa in tutto il mondo che, attraverso il discorso filmico, arriva a trascendere ogni sorta di particolarismo: «Anziché il mito storico della nazionalità, i film costruiscono la mitologia cosmopolita della guerra come malvagità antica e perenne di tutti gli ambienti multiculturali» (Daković 2002, p. 160).

La dissestata famiglia Buntić riscopre il vincolo della solidarietà, paradossalmente, proprio grazie alla guerra (il capo clan aiuterà sua moglie, il figlio, la nuova compagna ed il capitano Savo a fuggire all’estero). Nell’illusione di catturare, di nuovo, quel prima. Di non vedere svanire sotto i colpi delle granate la pacifica ordinarietà di un tempo. Di rimanere, insomma, fuori dal mondo. Il gatto nero di Divko (Bonny), scappato un giorno dal lucernario di casa, diventa la proiezione della propria immagine sbiadita da riabilitare agli occhi della gente. L’oggetto perduto a cui dare disperatamente la caccia e su cui il proprietario mette addirittura un’ingente taglia in marchi tedeschi. Il felino non farà mai ritorno dal suo padrone, perché forse il passato, prima ancora che dalla bufera della Storia è già stato spazzato dalla stagione dei rancori. Mentre apparirà ai giovani Martin ed Azra, nell’istante in cui i loro corpi desideranti si avviluppano clandestinamente nella foresta (scena di fusione panica e di vitalismo, codificata nella cultura cinematografica dell’ex Jugoslavia).

Partendo da una traccia realistica e riconoscibile, Tanović sceglie di immettere la narrazione, a struttura circolare, sui binari del tragicomico (ma senza gli slanci immaginifici o circensi, gli eccessi da slapstick comedy, né il corredo simbolico di Underground di Kusturica). Tutto ciò per mostrare quanto, a volte, può essere ridicola e futile l’affannosa difesa dei propri beni materiali dinnanzi allo spettro di un genocidio. Se è vero che la storia dei Balcani – secondo una visione mitico-fatalistica – è stata spiegata come un eterno ciclo, anche lo sguardo dell’autore bosniaco sembra ricalcare questa prospettiva.
Lo testimonia la sequenza finale, che potrebbe anche essere un ricordo o un sogno. Dopo la guerra, Lucija ritorna dalla Germania ripetendo lo stesso identico viaggio del marito (a suo tempo scappato per non essere arruolato nell’esercito): entrambi, sorridenti e spensierati, salgono su ciò che rimane di una giostra. La ruota gira ed il movimento incessante della vita riprende. Un altro cerchio si è definitivamente chiuso. Quello della Storia. E di una stagione della propria vita.


Bibliografia

Arendt H.(2007): Due lettere sulla banalità del male, Nottetempo, Roma.

 

Daković N. (2002): Yugoslav Wars: Between Myth and Reality, in «Media, Performance, and Identity Research Circle», consultabile sul sito http://polyglot.lss.wisc.edu/mpi/index.htm.

Matvejević P. (1995): Ex Jugoslavia: diario di una guerra, Magma, Napoli.

Sorlin P. (1980): La storia nei film: interpretazioni del passato, La Nuova Italia, Firenze.

Stevanović V. (1999): Nome e personaggio, in P. Matvejević (a cura di), I signori della guerra: la tragedia dell’ex Jugoslavia, Garzanti, Milano.