Serge Daney

daneySe il film è per me, io sono per lui: di fronte a lui e dentro di lui. Ripenso […] a proposito del “posto dello spettatore” davanti a un film, sul fatto che c’è una doppia scena, un doppio modo di esistere davanti al film: come corpo inerte tra gli altri, e come sguardo vivo tra le inquadrature. L’amore dell’inquadratura è quello degli interstizi in cui infilarsi, di nascosto o ben nascosti dallo svolgimento del film.


Il cinema non è immagini, ma inquadrature. Formula che esprime che cosa sia […] il cinema. […] L’inquadratura è un blocco indivisibile di immagine e tempo. È il tempo che mi è necessario per abitare (e anche per abituarmi a) un’immagine che altrimenti mi farebbe paura (paura di esserci/paura di esserne escluso: Barthes). La bellezza di un’inquadratura, la sua giustezza, è una cosa diversa dalla bellezza di un’immagine. Per finire l’inquadratura è musicale. Respirazione, ritmo. C’è del cinema quando, inspiegabilmente, un respiro aleggia tra le immagini.

Del cinema mi hanno interessato solo le inquadrature. Il resto, che esiste e esisteva senza di me, può continuare senza di me ed io senza di lui. L’inquadratura, contrariamente all'immagine, ma come la musica, non si può riprodurre, né citare: la sua durata fa parte di essa.

Vedere dei film, viaggiare. È la stessa cosa. Viaggiare, e non evadere o fuggire. Viaggiare significa sapere che, per poter trarre piacere dal viaggio stesso, bisogna avere una meta, cioè trovarsi “fra” due estremi, in altre parole protetti. […] Vedere dei film, viaggiare: un tempo fu così anche per gli altri […]. Ma poi sono diventati tutti turisti (consumatori di viaggi) e non si aspettano più dal cinema che esso dia loro il brivido dell’esotico, né dal film che li conduca con il suo ritmo (lento).

La frase di Straub: «ho impiegato vent'anni per imparare a guardare un film». La pronunciava con l'irritazione di un operaio che tiene al suo sapere conquistato con difficoltà. Che cosa vuol dire in fondo guardare un film? Vedere e sentire ciò che è (visibile e udibile). Per esempio vedere - con lo stesso colpo d'occhio - l'inquadratura [...], la ripresa di questa inquadratura, [...] l'attore distinto dal suo ruolo, il personaggio distinto dal suo corpo, l'essere umano distinto dalla sua funzione sociale. [...] Evidentemente rappresenta un limite, ma è l'unico approccio materialista. Certo è un programma folle. Ma questa esasperazione della percezione di ciò che è eterogeneo sotto l'omogeneo è anche ciò che rende possibile la critica. [...] Il critico (restiamo straubiani) è colui che se fosse capace di questa sovra-percezione potrebbe discutere con gli autori stessi. Parlerebbe da artigiano. Ma da artigiano molto colto, capace di mettere a fuoco tutti gli strati delle millefoglie che è il film.


Serge Daney (1997): Il cinema, e oltre. Diari 1988 - 1991, Il Castoro, Milano.