andereNon è solamente l’Heimat - luogo fisico connotato senza incertezza -  ma soprattutto l’aggettivo indefinito “altra” ad aggiungere e segnare uno scarto concettuale nel tema del ritorno ribaltando la questione e invertendo l’ordine della ricerca.
Il movimento avviene da fermi ed è un viaggio che porta lontano. Colui che più di tutti sogna di partire, colui che informa il territorio natio di parola e utopia (quelle degli indiani, che l’immaginazione situa nella giungla amazzonica) non intraprenderà mai il viaggio, ma sarà l’unico a restare aggrappato alla visione, la cui cronaca è ciò che definisce l’immagine in gioco.


Nel film di Reitz, incontestabile capolavoro (fuori concorso) di questa mostra, il ritorno diventa ricerca di un posto, di una terra mai raggiunta, di uno spazio mentale in cui i progetti si accumulano, i sogni si sgranano in prospettive ipotetiche e le speranze sono ancora delle alternative possibili al destino uguale e implacabile in cui si vive per lavorare e dove il contrario, se avviene, è nei sogni (animati di fuoco kafkiano e molto simili all’altra stupefacente visione terminale del festival, quella che nasce da un colpo di vento e che chiude abissalmente la carriera di Hayao Miyazaki: il sottotitolo reitziano, Cronaca di una visione, è perfetto anche per il capolavoro del cineasta giapponese The Wind Rises).
Un poema epico in un unico blocco (230’) di visioni a strapiombo sul fallimento o sull’immaginazione ambientato negli anni ’40 dell’800. L’alternativa a restare è quella di rifondare un luogo in cui riuscire a vivere; una terra di promesse ideali la cui conoscenza avviene prima del suo raggiungimento, con la dedizione all’idea che esista un Fuori nel quale vivere oltre la vita.
La questione che si pone non è solamente quella del rapporto ancestrale con un’interiorità tanto complessa quanto rimossa (cosa arriva da fuori? cosa nasce da dentro?), ma la risposta alla domanda “come si esce dall’Heimat, come si raggiunge l’Altro”?

La patria altra è probabilmente un posto senza coordinate nel quale ci si può solo perdere: passano gli affetti, crollano le case e chi parte, come chi resta, non fa che morire… anche se su una spiaggia tropicale con un sole fisso nel tramonto irreale (The Zero Theorem, Terry Gilliam). Il Brasile è il pretesto del cambiamento, un posto esotico qualunque dai futuri possibili, desiderabile quanto più lontano dal reale, vivo nei dettagli di una lingua remota, generoso di promesse irrealizzabili. Terra invisibile. Il Brasile è il posto evocato (dal cinema?) ma che non può essere reso se non con le parole straniere di chi lo sogna o con il canto nostalgico di chi è partito (una trasvalutazione oceanica, direbbe Julio Bressane). Pur essendo costante presenza del film, non esiste immagine che ne possa attestare l¬a reale esistenza fuori dallo sguardo fisso di Jakob e dal riflesso in controluce delle striature di un amuleto.
Il bianco e nero è funzionale a rafforzare il concetto che indietro non si torna, al massimo si sta, in ogni epoca fissi, come in un fermo immagine di una cartolina d’epoca, a rischiare la sopravvivenza e lavorare per essere riconoscibili, costruirsi un’identità già decisa e assecondare il tempo nelle fasi alterne di un paesaggio statico.
Poi però gli stacchi tenui di colore appena percettibili, esatti come un verso di Valery (ancora The Wind Rises, Miyazaki), segnano il tempo come suture incandescenti (ricordate Cuore di vetro di Herzog?) e modificano le stanze, scrostano l’intonaco dalla parete umida, muovono la piega di una veste appena verde e il riflesso rugginoso di una lampada spenta. Sibilano le cose.   

La ricerca del “posto” prescinde dal mondo, il fuori è negli occhi di chi cerca una terra promessa nella quale tornare quando il vento si placa.
Il luogo dove illusione e ossessione coincidono, sfreccianti curiosità e atrocità kafkiane, fra desideri di diventare pellerossa, medici di campagna, agrimensori (Werner Herzog in persona) e il sempiterno sogno dell’America e il sempre irraggiungibile prossimo villaggio. Non solo Kafka, ma anche Ford, Borzage, Kazan, Cimino: la storia di questa terra che fa di tutto per trattenerti, e che, esattamente come il cinema, non appartiene a nessuno, e anzi trasforma la visione nel desiderio di esserne posseduti, smarriti nell’impulso dell’immagine esattissima che si credeva di aver visto e che si limita a parlar d’altro (in questo Reitz e lo Schrader di The Canyons addirittura coincidono). Così il piccolo indiano resterà l’unico (tanto da spaventarsi di cotanta intuizione) a sapere che la finzione di nome patria, prima ancora di confini, delimitazioni e vicissitudini dello schermo, è e resta l’occhio.