Matteo Marelli
Da Pietà Kim Ki-duk cerca di emendare il proprio gesto registico dall’artificio cifratorio non privo di derive estetizzanti che ha segnato il secondo corso della sua parabola cinematografica, quella, per intenderci, dei grandi riconoscimenti internazionali, cominciata con Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, una lunga stagione non priva di un certo compiaciuto calligrafismo.
L’intento, evidente soprattutto nell’esibita “rozzezza” della resa digitale, di riallacciarsi al pauperismo estetico dei film degli esordi passa anche attraverso la rinuncia del sovraccarico simbolico che aveva intasato, quasi fino all’afasia, i suo lavori.
Ki-duk sceglie di esprimersi per immagini e situazioni di inequivocabile chiarezza, tanto da toccare in One on One l’esasperazione didascalica. Il regista decide di non ricorrere a metaforiche traslazioni semantiche per mostrare il tutto in bella e brutale evidenza.
Se il precedente Moebius era una variazione sul tema della dannazione edipica, qui Ki-duk recupera un’altra questione chiave del suo percorso filmografico, quella del complesso di colpa che pone tutti, comunque colpevoli di meschinità, nella duplice posizione di meritare e subire vendetta.
È l’assassinio di una ragazza, orchestrato da un circuito di complici, a innescare una risposta di brutali ritorsioni da parte un imprecisato commando. Lo scopo è quello di costringere ciascuno dei conniventi a prendere coscienza della propria azione e allo stesso tempo tradire i corresponsabili.
Il progetto punitivo mostra però come i ruoli di vittime e carnefici siano mutevoli e scambiabili modellando il film come un ininterrotto gioco delle parti. Un meccanismo che si fa via via sempre più esibito sia dal punto di vista iconografico (i travestimenti adottati di volta in volta dal commando sono sfrontatamente riconoscibili, eccessivi, carnevaleschi; i luoghi di tortura lampanti spazi di illlusione) che compositivo (il tutto si struttura come un continuo alternarsi di ripetizioni differenti).
Appare chiaro come il nucleo centrale di One on One è il dualismo veridicità/finzione declinato in termini di messinscena, concetto riferito sia all’attività registica che alla predisposizione "recitativa" dei personaggi che si muovono sul palcoscenico della vita/fiction interpretando un ruolo.
Quest’ultimo film di Ki-duk è giocato su un’architettura di rappresentazioni simulate, tutto è visibilmente costruito, artificioso, di secondo grado; il regista non ha alcun interesse a camuffare la macchinazione narrativa sotto la patina della plausibilità.
Il suo intento è quello di realizzare un’opera dichiaratamente autoriflessiva e teorica come dimostrano anche i dialoghi ben più che programmatici, ma vere e proprie chiose che nulla lasciano insoluto. Se nei lavori immediatamente precedenti (Pietà; Moebius) sopravvivevano angoli di mistero che permettevano l’intervento esegetico dello spettatore, ora Ki-duk è come se diffidasse del tutto delle sue capacità di lettura.