Valentina Dell'Aquila

alt«Uno dei più grandi misteri è il motivo che induce migliaia di persone a passare i loro fine settimana estivi in ex campi di concentramento guardando forni in un crematorio» (Loznitsa). Sintomo di un imperialismo che è guerra spirituale, il turista, privo di una reale consistenza corporea, è un fantasma ossessionato da rovine, in cerca di cultura, di spettacoli di una cultura: non è davvero lì, si muove attraverso astrazioni, defunte iconografie, raccogliendo immagini anziché esperienze, e la vacanza non è che una nuova miseria sulla miseria altrui (cfr. Bay).


Il dolore è un sacrario, e il pellegrino, altrimenti alla ricerca di un nuovo stato di coscienza, è ora di fatto stanco osservatore di perdite, morto tra morti - consumo delle differenze ed economia del dolore. La violenza dei corpi commemorati è nella violenza dei nuovi corpi registrati, corpi-catalogo, corpi-archivio di vuote immagini. La camera non si sottrae al voyeurismo infinito dello sguardo della differenza; certo ne crea uno più monolitico, uno più letale, ma è souvenir esso stesso, profanazione rituale. Quel che Loznitsa crea in Austerlitz è l’effetto dello sguardo esotico, uno sguardo collezionante che finisce con l’essere a sua volta collezione da osservare. Non reportage ma catalogo di terrorismi: un abisso di immagini mai date separa i turisti dagli oggetti.

A un primo sguardo il film sembrerebbe reagire a questa ritualità di corpi mostrandoci le sue stereotipie, le sue umane urgenze che irrompono il tabù del sacrario – il pranzo a sacco di uno sparuto gruppo –, le sue profanazioni fotografiche, gli occhi equini in cerca – o neanche in cerca–, i souvenir fatti di baci e pose tra spazi di morte, i vestiari alla Duane Hanson, il suo audio stridere di biascicanti piedi, di biascicanti voci, e di gonne, trecce e chiese; questo ci sembrere vedere a Sachsenhausen. Fosse soltanto la registrazione, la denuncia del capitale alla ricerca di una memoria falciata, l’istanza filmica sarebbe da ridursi a solo reportage sulla virulenta violazione, nonché forse nuova reiterazione del tabù.

Così non è. A parole, la guida illustra la storia alle folle, e il racconto a un punto si interrompe, si tace e si riavvolge in un nuovo racconto, in un nuovo aneddoto ancora una volta troncato: lo spettro dell’abuso avanza eterno su inquadrature ferme di spazi compressi, spazi compressi su folle compresse, in fila, ammassate, in attesa. La possibilità immostrata del racconto crea però una vivida immagine, l’immagine del possibile che l’assenza genera, immagine – questa assente – che ha un suo corpo, come i corpi qui in fila a pensarla. E la si immagina nella differenza, una differenza intangibile che il turismo in quanto realtà virtuale, ricerca.

Sarebbe da ricordarci Agamben di Nudities che sulle città cadavere scrive: «questo nuovo stato è quello dello spettro, del morto che appare senza preavviso, a volte anche parlando, in un modo che non è sempre intelligibile. I morti, dopotutto non chiedono nulla da noi, anzi sembrano fare tutto il possibile per essere dimenticati. Siamo indifesi e delinquenti nei loro confronti» (Agamben, 2011).


Bibliografia:

Agamben G. (2011): Nudities, Stanford University Press, Stanford, California.

Bey H., Naji L., Massoudy H. (1995): Voyage Intentionelle = Overcoming Tourism, Lilim Paris, France.