Luigi Abiusi

Nell’aria sonnolenta del primo giorno di mostra, in mostra già nella moquette rossa, a tratti ancora in allestimento sulle passerelle, gli scalini; nei tabernacoli che raccolgono la polvere del tempo, i fasti di vecchio velluto (drappi, saloni lucidi legati misteriosamente alla parola casinò e a uno scorcio di mare sciroccale, con anatre), anche le facezie di trina delle dive svolazzanti sugli attracchi, e, tra i cartelloni, le locandine, che raccolgono l’immagine di un festival che era ringiovanito grazie a Muller, tanto da diventare bambinesco, schizofrenico caleidoscopio di visioni, e ora sembra rattrappirsi, invecchiare nella carne purulenta della narrazione (ma neppure una bella narrazione, sfaccettata, inventiva: piuttosto una congerie di storie stanche, banali, come uno di quei ritornelli di Allievi in cui non si vede prospettiva, invenzione di spazi, se non quella di uno smottamento intestinale, improvviso); e in aria di deontologica detrazione di Iñárritu, artificioso, spesso tronfio si sa, Birdman delinea gli spazi tortuosi della mente (deteriore) di un attore di cinema passato a fare teatro dopo i successi del personaggio che interpretava, il supereroe Birdman, attraverso (l’illusione di) un unico piano-sequenza, niente affatto tendenzioso, e invece giustificato dalla conformazione stessa delle quinte di un teatro di Broadway, serraglio di cunicoli, camerini, depositi di vario teatrale ciarpame, con improvvise e fumide aperture sulle strade di New York. La cosa più interessante del film, oltre all’interpretazione di un beffardo (eppure tenero) Edward Norton, è il discorso metacinematografico (pure condotto icasticamente) e, come dire, di economia del cinema, perché a intellettualismi, elitarismi premessi da certa critica e certa cultura “alta”, Riggan Thomson risponde con la gioia, la libertà, la “volatile” follia del suo istinto (anche per plot carveriani) che celebrano film di puro, “ignorante” dinamismo, come Transformers e Godzilla.

The look of silence di Oppenheimer, atteso con pregiudizio di segno opposto a quello per Iñárritu, sulla base del precedente, splendido The act of killing, oltre al rigore dell’assunto, del resto enfatizzato, per propria natura, dal registro del documentario, ha il merito di basarsi su una discontinuità emotiva che, ad esempio, prima avanza un senso di macabro comico, quando due dei vecchi aguzzini, buffi, sornioni, apparentemente anodini nelle loro movenze cacofoniche, clownesche (specie di Franco e Ciccio della mattanza filoreligiosa e filoamericana), simulano le procedure di sventramento ed evirazione che avevano usato nel 1965 contro i contadini comunisti; poi quello di umanissima, commovente pietà, quando il protagonista-oculista perdona e abbraccia la figlia di un altro degli assassini, unica tra gli intervistati, veramente contrita di fronte allo scempio di tutta una generazione di padri, madri, zii.

Ma è Senza fine (Bez Konca, 1984) di Kieslowski, restituito a una luminosità sorprendente (per la sezione dei classici restaurati), la visione più ineffabile di questo inizio di mostra, nella fusione formidabile di politica (la vicenda ideologica legata alla resistenza di un lavoratore, imprigionato per uno sciopero) e poetica: la resistenza di Ula di fronte all’enorme, trascendente mancanza di suo marito Antek, morto improvvisamente per un malore e tornato dopo il funerale, in spirito, ad abitare gli spazi che erano stati suoi, condizionando in qualche modo, in quanto Caso (Destino cieco), gli eventi; fermando la macchina di sua moglie prima di un incrocio ed evitandole un incidente mortale; apponendo un punto interrogativo sul nome di Labrador, il vecchio avvocato che seguirà (pragmaticamente) il caso del lavoratore al suo posto; mostrandosi per un momento a Ula in una specie di dormiveglia, proprio quando lei, esausta per l’assenza lancinante del marito, ricorrerà all’ipnosi per dimenticarsi di lui. Ma c’è motivo di credere che questa cosa, inviluppo composito e sfuggente, come deforme, anzi proteiforme nella sua carne candida, malattia dall’interminabile decorso e con effetti collaterali devastanti, grumo di sogno, che chiamiamo amore sia inalienabile, incontrollabile: possiamo (dobbiamo) solo assecondarne gli sviluppi, sapendo che per Caso, non è gestibile, non c’è libero arbitrio che possa rimuoverlo, ma anzi solo riconoscerlo e angelicamente, poeticamente piegarsi all’inconsunta accensione primaverile di biancori, erotici sentori, bagliori smerigliati in cui appaiono un uomo e una donna che procedono insieme nel mistero di un prato fuori. Kieslowski ha dedicato tutta una vita a ordire questa trama, piegando il suo cattolicesimo verso una specie di mistica dell’Immaginazione, e a costruire questa Fede, che è poi quella benjaminiana nelle immagini dialettiche, quella rilkiana della felicità bianca, ancora l’elevazione di Baudelaire (assimilazione di eros e poiesis) che sola salva: penso a Breve film sull’amore, che invertiva drasticamente l’esito del Decalogo 6, riempendo il finale di immagini struggenti di un amore renitente, e alla trilogia dei tre colori (e di lì a Storie d’amore di Jerzy Stuhr), dove “tutto torna”, i campi invernali inverditi da un brano, una brama di primavera e da una lattescenza nella bocca, sul seno, riflessa dentro occhi bambineschi; l’aspro eppure dolce suono d’arco sul manto di lunghe spighe; i covi dentro gli sterpi, negli sterrati completamente zittiti da frinire, ronzio, fruscio di vento dentro l’alcova, nella violazione del pomeriggio che prima era vergine: anni e anni e anni fondono ancora, mentre tutto appare arido e tenero, nella dolcezza trionfale del ritorno, senza fine.