Gemma Adesso

La ricerca di “un posto” nel mondo nuovo è solo nel titolo del film del regista iraniano Nima Javidi: un posto, non importa dove, nel quale si resta o dal quale si fugge, in assenza di spazi aperti in cui respirare.
L’assenza d’aria che compone le prime scene di abiti liquefatti in un sottovuoto definitivo, si riempie di una colonna sonora fatta di squilli suonerie assillanti di cellulari mai spenti fastidiose videochiamate allarmanti citofoni. L’appartamento (quasi speculare ai corridoi labirintici del teatro mentale di Iñárritu, dove la necessità della ricerca diventava però volo immaginifico), sempre troppo affollato e dal quale sembra impossibile riuscire ad allontanarsi, diventa il luogo di un inesorabile e progressivo svuotamento di aspettative e di speranze generazionali soffocate in un sonno neonato (forse mai-nato); è allora che la partenza diventa fuga, i sogni sensi di colpa, le parole dovute confessioni impossibili.

L’incapacità di uscire da un reale claustrofobico pare la costante di questo cinema iraniano concentrato nel racconto dell’atto resistente di denuncia del quotidiano, fisso nella resa di personaggi credibili che si perdono in un volteggio finito di drammi personali.
Melbourne è il viaggio potenziale, il raggiungimento di una casa ipotetica, l’Heimat da riempire di abiti ricomposti, ricordi lontani, selfie familiari, sogni realizzati; ma il “super-realismo” di scena (come lo definiva la spietata etichettatrice critica del Times in Birdman) fatto di lacrime credibili e sangue vero prosciuga i sogni, impedisce il volo. Dal palco si precipita quando la finzione diventa consapevolezza e l’immaginazione non è più avvertita come una necessità politica (per tornare di nuovo a Senza fine di Kieslowski o all’abbagliante Pialat di L’amore esiste).

Chi resta muore per soffocamento.
Quel potenziale visivo dell’aspirazione (d’aria) si perde, scompare nella funzionalità descrittiva degli atti seriali di vite uguali. Quando c’è, l’anomalia diventa utile materiale per una sterile indagine compilativa di questo animale umano oscillante nell’insostenibile contraddizione tra putrido e ordinato (Seidl).
Una volta che si è precipitati non ci si stacca da terra, quello che si è visto non resta. L’appartamento vuoto, inospitale, è tutti i posti irraggiungibili nei quali si rimane: dai teatri dismessi agli altari risparmiati dai bombardamenti, dai quartieri eleganti alle baracche periferiche di Parigi, dalle villette isolate ai palazzi anonimi senza finestre.
In un “presente che ha il sapore dell’attesa eterna” (Pialat), da una finestra qualsiasi spalancata sul vuoto è ancora possibile vedere con occhi di bambina maschere alate che sovrastano la terra?