Matteo Marelli
Si può pensare di rappresentare la crudeltà sfuggendo il dottrinale massacro visivo (per cui, volendo mostrarsi, si cancella riducendosi a esibizione predeterminata di immagini violente)?
Sì.
Artaud, che ne è teorico, parla di crudeltà in termini di rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta. Scrive, nelle pagine de Il teatro e il suo doppio, che nell’esercizio della crudeltà c’è «una sorta di determinismo superiore cui persino il carnefice-seviziatore […] deve essere determinato a sopportare. La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata».
La stessa che convince Paul a suicidarsi perché Contro il mondo, contro la vita. L’esordio letterario di Houllebecq non è casualmente chiamato in causa: ad interpretare il protagonista di Near Death Experience, infatti, è proprio l’autore del saggio lovercraftiano; un personaggio (di occhio lucido e sguardo consapevole, disposto a percepire il mondo nella sua cruda nudità) che gli autori Benoît Delépine e Gustave de Kerver, hanno costruito sia attingendo all’immaginario letterario houellebecqiano, che dall’immagine di narcisista/nichilista dipinta dai media (e sostenuta dal diretto interessato) per raccontare dello scrittore di Estensione del dominio della lotta.
A frenare Paul è una progressiva nostalgia non tanto per l’umano, quanto per il quotidiano, per quella dimensione di vuota ripetitività, da cui aveva deciso di chiamarsi fuori, ma che si ritrova a rivivere in maniera feticistica (garantendogli così il pieno controllo delle situazioni).
La crudeltà di cui s’è detto in apertura non riguarda soltanto le dinamiche interne al testo, ma anche, se non soprattutto, la sua messa in quadro, sublimemente densa e contemporaneamente disadorna, sgraziata, colma di ruvidezze formali: l’immagine è così a bassa risoluzione da rendere la visione sottilmente ma implacabilmente fuori fuoco.
Un’immagine estrema, nel senso implicito del termine, caratterizzata da una tensione inquieta, che percorre il film indipendentemente dal quanto poi mostrato. Cioè da un orrore che sta al di là dell’immagine.
Una messinscena nuda e cruda (ma non così tanto quanto si potrebbe superficialmente credere) capace soprattutto di catturare il grado di coinvolgimento di Houellebecq, che, più che interpretare, vive le situazioni recitate sul set. Quest’ultimo lavoro di Delépine e de Kerver restituisce tutta la partecipazione fisica, corporea dello scrittore, raffigura la potenzialità espressiva del raggrumarsi del suo sangue vivo. Da questo punto di vista Near Death Experience più che un film è un happening.