Versione riveduta e ampliata dell’articolo Corporale, pubblicato su “Filmcritica”, n. 608, ottobre 2010.
Cold Fish
Una delle tracce meglio rinvenibili da sotto la concrezione di film accuratamente eteromorfa, dell’ultima mostra veneziana, rivela numerose declinazioni corporali (apodittiche, stupefacenti, spesso vischiose) e di conseguenza le differenti, o addirittura antagoniste, concezioni del corpo-cinema, da quello laconico e fibroso nella misura di morto carname di Larrain, fino a quello più patinato, delle scenografie sessuali e muscolari di De La Iglesia (che non va oltre lo spettacolo “epidermico”, a dispetto di un inizio straniante) e di Rodriguez (impegnato, pur nei consueti giochi corrivi, ad alludere a una qualche eversione degli ultimi, dei marginali), passando per l’autentico pastiche di Sion Sono, che in Cold Fish (sezione “Orizzonti”) genera una dinamica schizofrenica in cui corpo (squartato e ridotto a manichino monco) e sesso (negato o istericamente profuso) sono i termini di un'alienazione raggelata.
Dove, dietro la prima impronta ludica, la subitanea consumabilità del derma-cinema-postmoderno, del seno-spettacolo (quello tracimante della matrigna, o delle commesse discinte del negozio di pesci), si nasconde – per emergere violentemente alla fine – l'impietosa requisitoria, da parte del regista umanista, del corpo-capitale, della pratica di svuotamento psicofisico dell'umano, di meccanizzazione e mortificazione della smodatezza o della sterilità erotica, in uno scenario, il contemporaneo, dominato dall'attrito di arti monchi-merce in assenza di idee corpose.
Black Swan
Mentre, alimentato dalla visione neoromantica di Aronofsky, ricompare sulle scene in tutta la sua stratificazione il metabolismo dell'umano, in veste di donna, di danza sinuosamente articolata, in Black Swan. Qui le coreografie algide, tecnicamente perfette prima, poi viscerali, carnali, del corpo danzante, sono la reificazione del convulso arrovello interiore, che scoprendo la propria dimensione erotica (repressa tra le mura di una “casa di bambole”), lacera i tessuti, rompe le unghie, taglia gli stomaci. Aronovsky costruisce un efficace impianto speculare, e una stretta sutura, tra coscienza turbata della fragile danzatrice, e sontuosa fatiscenza degli scenari, rinnovando in questo modo la tradizione del tragico (nella forma del balletto) e del sublime, che peraltro sembra perdere molto del suo fascino, quando si identifica troppo esplicitamente con certo “cattivo gusto” dell'iconologia horror. Ma l'oscurità, il nero che pare obnubilare proletticamente anche il candore del cigno bianco (il tulle quasi filigranato dall'ombra) e i peluche, le lenzuola rosa del letto ancora fanciullesco, resta, per lo più, imperscrutabile, come amalgamato indissolubilmente alla psiche labirintica e disperata e al laconico esserci di un mondo serale, governato dal languore dei riflettori, delle lampadine dei camerini, e dall'inquietudine dei neon nella metro semideserta.
Post Mortem
Perciò le inarcature dei corpi umani disposti o catturati nello schermo e assemblati nel catalogo veneziano, nel migliore dei casi — cioè quando travalicano la mera prosasticità del racconto —, presiedono ognuna a una mitopoiesi precisamente connotata, significante nel senso della simbiosi tra corpo, sue secrezioni, condizioni ambientali, che costituisce il cronotopo (Bachtin) in fatto di (in)edita — cioè sempre riverbalizzata — risonanza e irradiazione delle cose, derivanti da una febbre, primevo fremito dell'organo, della cellula.
Così in Post Mortem l'atmosfera è suscettibile delle vicende (storiche) e proprio del tenore (immemore) dei due corpi principali, quello di Mario (Alfredo Castro) e di Nancy (Antonia Geders) rappresi nella loro muta, feroce scarnificazione, metonimia perfetta del corpo dispotico statale, militare, che dispone via via la dissezione (anche, ovviamente, della storia progressista, sondando il cranio devastato di Salvador Allende). Allora la vita, realizzandosi nella presenzialità del corpo ottuso e del suo Potere, si delinea quale espletamento meccanico e utilitarista dei bisogni, raffigurati entro l'angustia, la cisposità opprimente dei 16 millimetri, per via di uova sfrigolanti sui fornelli (atte al pasto nudo, animale), coiti (e masturbazioni) consumati famelicamente quanto faticosamente da corpi impotenti, svuotati di emozioni, cadaveri che poi s'accumulano copiosi all'obitorio (teste e braccia pensili, trascinati come masserizie, e il crepitio dei tessuti lacerati dal bisturi), quali materiale di scarto, deiezione della storia, ma, direi, della Natura. È l'eco di quella “visione secreta” — non priva del feticismo che riguarda l'immediatezza, l'urgenza del pasto e del coito —, propria della poetica escrementale di Tony Manero (di cui resta l'immagine di Raùl Peralta che defeca sul costume bianco dell'avversario ballerino), ora trasposta, poiché il corpo è costipato, in termini spermatici, sebbene celati dalla macchina da presa e piuttosto amplificati sul piano sonoro, come per il friggere della pietanza, l'ansito dell'amplesso, lo scricchiolio untuoso dello squarcio pelvico: sono le tracce di sperma lasciate dal pubblico sulle sedie del teatro, di cui il capocomico si lamenta col sottoposto, e soprattutto la sostanza depositatasi, per automatica frizione (e fruscio), sulla mano di Nancy dopo che lei ha masturbato Mario, di cui si libera con moto meccanico, distratto, chiedendo subito in cambio il pasto. E ciò trapassando nell'atmosfera, come lattiginosa e vischiosa d'albumi (subito cagliati), opaca entro le inquadrature impassibili, ferme su squarci di mondo, di volto, di un corpo-cinema mortuale, salvo risuonare per un istante nel grido disperato di Sandra (Amparo Noguera), unico scarto umanistico di uno scenario anatomizzato, reificato. È un cinema che all'improvviso vibra, di quel palpito che spesso precede la morte e che muove l'ultimo scampolo di vita dell'arto-pianosequenza, il finale vivente per accumulo di carabattole, inani oggetti scricchiolanti, che seppelliscono Nancy: il resto del film, ciò che abbiamo visto, è post mortem.
Attenberg
Ma le secrezioni e i relativi organi, esaltati dal sogno e dal racconto che ne fa Bella (Evangelia Randou), riprendono vitalità in Attenberg, della greca Athina Rechel Tsangari, dove il freddo, biologico statuto di sperma, pulsa perentoriamente nella “sborra”, succo di cui sono ricolmi i frutti, i peni turgidi di un albero immaginario, cioè in una rinnovata prosodia, seccamente erotica, che restituisce suono e luce al corpo e al sesso, scoperti lentamente e infantilmente da Marina (Ariane Abed). Si tratta di un giocoso apprendistato del mondo e dei suoi fenomeni (il maschile irsuto, trovato, saggiato, il paterno in sfacelo, il femmineo dei seni, delle scapole sporte, ancora, la sostanza liquida della saliva sputata e del mare tombale) sperimentando su di sé e insieme all'amica Bella, coreografie ritmiche e sincronizzate, come tentativo di decifrazione ed estetizzazione del caos. Così come lo sono le pantomime scimmiesche e bambinesche che intrattiene col padre, utili ad esorcizzarne la morte (lento, cosciente spegnimento) e quel senso di minaccia incarnata dall'ambiente uggioso, polveroso, come di ferraglia rugginosa, dello sfondo naturalistico e capitalistico (industriale), controcanto di inquietudine e tedio che completa l'iniziazione.
Venus Noire
Ma dalla scoperta, mediante l'occhio adolescente di questo cinema, dell'eros in quanto turbato compimento, libertà entro i limiti obnubilati della modernità e della morte, l'immagine si muta nella Venus Noire di Kechiche, che verifica (forse troppo didascalicamente) la contenzione e lo stupro, operati dalla porno-aristocrazia/borghesia (coloniale e scientista, cioè patologicamente incline a fagocitare altri territori), la riduzione a merce, a spettacolo, del corpo marginale. Kechiche sembra fare un passo indietro (ciò anche dal punto di vista della qualità della rappresentazione) rispetto a La schivata e soprattutto al suo capolavoro Cous Cous, per includere entro i margini dell'inquadratura (e della requisitoria) il contesto abbietto dei suburbi londinesi e, poi, delle stanze opulenti francesi, i bordelli, i laboratori lombrosiani, che dissipano l'abnormità, la perifericità e cioè l'alterità di ogni corpo. Le modalità laconiche della scrittura raffreddano ora, e distanziano (in un tono di sdegno lapidario) il corporeo, ne plasmano una cosa spettacolare, poi pornografica, in fine fantoccio da impagliare negli smorti saloni della scienze; lì dove prima, in Cous Cous appunto, l’inquadratura stava addosso ai personaggi dimenantisi e quindi trepidava, oscillava con loro, nella temperie afosa, soffocante della famiglia di immigrati (sempre più occidentalizzata) e della società borghese di maggiorenti e infingimenti.
The Ditch - Meek's Cutoff
Incremento di campo, fondale messo a fuoco da Venus Noire, varietà di forme e di corpi — tra guitteria del popolino e del mascolino, cupido e bisunto, e utilitarismo borghese, già liberista —, che in The Ditch del cinese Wang Bing diviene scenario astratto (e allucinato) della vicenda della sopravvivenza, in cui il cadavere è reclamato, disperatamente ricercato, ultimo indizio, se pure decomposto, di umanità. Lo sguardo è abbassato, avvicinato, si china per entrare nel fosso e si smuove, si sporca, per poi arrestarsi sui corpi ammassati, ammalati, che brucano e vomitano, e muoiono tornando indistintamente alla terra (masticata), deserto della Storia, ma alla fine, dimensione dilatata della consunzione universale; dove i viaggiatori di Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt, nell’apertura del campo lungo, delle mute praterie dell’ovest, si perdono, quasi smateriandosi, divenendo spettri, riverberi incorporati alla monodia dello spazio e delle domande rivolte all’ignoto, sibilante oltre l’orizzonte.
Silent Souls
È un trapasso, un divenire altro che Fedorchencko filma come volontà di scioglimento del corpo entro l’anima dell’acqua, sostanza misteriosa, piena di echi, da cui giungono voci e immagini, anch’essi post mortem. L’ottica antropologica che introduce l’etnia scomparsa dei Merja, svela in Silent Souls, il culto del corpo nei suoi passaggi topici e rituali (il matrimonio, il funerale , il “fumare”), attraversamento di soglie (Benjamin), capace di dare senso (umanità) all’esperienza. I due protagonisti lavano, curano le spoglie, ne evidenziano la densità carnea, immota, elegiaca; poi Miron (Yuriy Tsurilo) “fuma”, cioè, nel tragitto che li porterà al lago, ricorda particolari intimi della consorte defunta, prima di cremarne il corpo e di spargerne le ceneri nell’acqua. Ma il rito riguarda anche Aist (Igor Sergeyev), fotografo e scrittore, che per via del lutto e degli zigoli (uccellini screziati, testimoni del trapasso), torna alla sua infanzia, al padre poeta, che disperse le cose preziose, la salma della moglie e la macchina da scrivere (la scrittura, la poesia) nell’acqua profonda e argentina, nel paesaggio slavato tutt’intorno, e silenzioso, che si muove, sibila per sola ragione di trascoloramento, diluizione, e in cui si confonderanno alla fine gli uomini.
Una sacralità (profondità) dell’incesso, del gesto, spessore dello scrivere, e del filmare, come atto poetico che estranea il reale e i suoi corpi inavvertiti, subiti per vasta automazione, e ce li restituisce radiosi (o plumbei), parte di una versificazione che è sempre reminiscenza (e poi devastazione), dialettica: vastamente.