Mariangela Sansone
Sprazzi di luce lacerano l’oscurità delle tenebre, una notte eterna, in cui il tempo è sospeso in un perenne presente, ferita da freddi bagliori, luminescenze si aprono come sguardi scrutanti su una realtà cupa e fredda in un non-luogo. Dai neri vinilici e compatti affiorano corpi ed oscure figure che si muovo lente, folate di vento ostacolano il loro incedere, tutto ristretto in un piano sequenza, profondo e obliquo, che riporta allo sguardo un’immagine inclinata strutturata come lo squarcio di una lama.
La mdp indietreggia lentamente, allontanandosi da una realtà ostica, e svela i protagonisti della vicenda, un avvocato, destinato a rimanere senza nome durante lo svolgersi della narrazione, ed un pacco misterioso, su cui tutti vogliono mettere le mani.
L’uomo anziano claudicante, sul quale la camera si era soffermata nella prima scena, arriva dall’avvocato, introdotto sempre dall’occhio distante della mdp, che lo segue con distacco e con sguardo sbieco, fissandone il passo incerto, consegna l’ambiguo fagotto e, trascinandosi la gamba, amaro fardello, sparisce, risucchiato dalla profondità dell’immagine.
Da quel momento l’avvocato senza nome inizia il suo viaggio erratico per sfuggire alle spire della malavita, agli uomini che gli stanno alle calcagna, un errare che è fuga, ma allo stesso tempo è ricerca, un vagabondaggio tra le strade e i quartieri di Teheran, ma anche in ambienti chiusi, teatri di umanità s/conosciuta, messa in scena della quotidianità tra il reale ed il sogno.
La città, Teheran, entra prepotentemente nella scena, vive, palpita, la sua presenza è costante e tangibile, con i suoi rumori che scorrono in sottofondo, con i suoi paesaggi urbani, dettagli metropolitani, che la rendono tra i personaggi cardine dell’opera.
Nella scena del palazzo in costruzione gli spazi sono tagliati verticalmente da elementi architettonici che suddividono il piano, quindi lo sguardo del regista si allontana e l’immagine si arricchisce con l’entrata in scena di nuove figure e con la strutturazione di un paesaggio più vasto.
La spazialità sembra dividersi in più segmenti, quasi come accadeva nel wellesiano Falstaff, con un distacco che consente alla scena di vivere di vita propria, così l’occhio, in una contorsione innaturale, da osservante diviene osservato.
Alternando inquadrature trasversali a superfici bidimensionali larghe, Karimi mantiene sempre una certa imperturbabilità rispetto alla storia ed ai personaggi che la popolano, se ne mantiene fuori, a distanza, con la freddezza tipica del polar; si allontana dalle vicende con movimenti di macchina a ritroso che lasciano respirare i quadri, ma allo stesso tempo regalano loro profondità e struttura. Karimi non vuole marcare i confini del reale, i limiti delle figure si assottigliano, scivolando lentamente nell’indecifrabile metafisico, distanti da una razionalità concreta ed affidati all’indefinito di una mutevole deriva onirica; il reale si confonde e si sovrappone al sogno e le demarcazioni, che dividono i due piani, si assottigliano facendosi labili. La psiche slitta su un piano visivo popolato da spettri e ombre, in ambienti chiusi, come la casa dell’avvocato o la sauna pubblica, qui l’occhio della mdp segue ora coordinate circolari, ora orizzontali, passando in rassegna corpi, a volte, familiari, ma distanti tra loro, muti, privati di parole, gli unici suoni sono quelli esterni.
Il regista si affida al bianco e nero ed a cupe atmosfere espressioniste per disegnare la sua storia, con un occhio alle ombre nette e severe già usate da Hermann Bahr per Il gabinetto del Dottor Caligari (1919) di Wiene, i chiaroscuri tagliati da lampi di luce che dividono le tenebre e frazionano le immagini.
In Drum ci si muove con lentezza e smarrimento, ignari della provenienza e della meta; è un percorso psicotico e contorto in cui è facile perdersi, tra le ripide scale che si inerpicano strette o i dondolii delle altalene che dimorano nelle stanze.
Tagli si aprono sul piano visivo, trafitto da bagliori che fulminano le immagini, tra gli enigmi visivi di Escher; cupe ombre disorientanti affollano le pareti, illusioni mentali alienanti che giocano con il paradosso mistificatore e caotico.
Karimi sceglie una focale corta alternandola ad una più lunga, inquadrando ora il vagabondaggio dei suoi personaggi ora l’errare della sua mdp, che si ferma ad immortalare la narrazione filmica, scrutandone il suo divenire. Lo stile visivo dell’autore iraniano regala allo sguardo dello spettatore la libertà di scegliere dove guadare, grazie al campo lungo e alla focale corta, per un’ottica più realistica. Sono gli occhi a scegliere il montaggio all’interno della scena. Il regista utilizza sovente due movimenti che si alternano: uno scivolamento orizzontale bidimensionale, costretto in un ingranaggio, diviso in segmenti, da elementi urbani, ora da ombre e ferite di luce, come in un quadro di Vilhelm Hammershøi, ed un’oscillazione circolare che opera in profondità una ripresa dal basso verso l’alto o a media altezza.
Il tessuto narrativo dell’opera è scarno, ridotto all’osso, appena accennato, i personaggi sono accarezzati e rimangono tutti privi di identità, senza nome, il protagonista è il tessuto urbano con le sue sonorità, il rutilante ritmo dei tamburi in sottofondo, il soffiare del vento, le nenie e le parole sussurrate, riflesse su specchi e superfici, offre le mille sfaccettature di una città mai uguale a se stessa, ostica e in continuo conflitto con ciò che è e ciò che vorrebbe essere.
Durante lo scorrere del minutaggio la prospettiva muta: dall’osservazione oggettiva, fredda e distante della città e della vicenda, condotta magistralmente dal regista, lo spettatore si ritrova ad essere totalmente assuefatto ad un impianto visivo onirico, si scivola in condutture e lo sguardo si sposta lontano dalla realtà, tra il sogno e le delizie di un delirio caustico.
L’impianto sonoro del film riveste una parte fondamentale, ritmi martellanti e sincopati si rincorrono negli esterni, mentre lo srotolarsi della matassa filmica è accompagnata dalla quasi assenza di colonna sonora; solo i rumori che da fuori irrompono nella scena contribuiscono ad esasperare l’atmosfera allucinata e irreale. Larghe pennellate di grigi corposi e stratificati, in sottofondo scorrono i rumori della città, accompagnano lo spettatore nell’algida atmosfera di Drum.
Drum (Tabl), scritto e diretto dal regista iraniano Keywan Karimi, basato sull’omonimo romanzo di Ali-Morad Fadaei-Nia, è stato presentato nel corso dell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, in concorso alla Settimana Internazionale della Critica. Una poltrona vuota, quella che doveva ospitare idealmente il regista, segna la sua assenza, trattenuto in Iran in seguito ad una sentenza che lo ha condannato ad un anno di carcere, al pagamento di venti milioni di riyal ed a 223 frustate, per la sua precedente opera Writing in The City (2012), che attraverso i murales raccontava, in forma documentaristica, gli ultimi trent’anni di storia dell’Iran, fino alle elezioni del 2009. Una voce fuoricampo invita lo spettatore a trovare giustizia in una città come quella che ospita la storia che si sta dipanando sotto i suoi occhi, cercando chi non è stato mai colpevole, e sottolinea come tutte le religioni da sempre predichino “occhio per occhio, mano per mano e corpo per corpo” e come l’atavica legge del taglione, sia “l’origine di tutte le leggi del mondo”. In una lettera inviata direttamente dal regista alla commissione della SIC, lo stesso Karimi parla della sua situazione, della paura di un imminente imprigionamento e di quanta forza sia scaturita dalla realizzazione del suo primo film e dalla guarigione della madre dal cancro, desideri che si sono realizzati e che infondono nell’uomo il coraggio per affrontare il suo destino.
Drum è un’opera che poggia le fondamenta su una fotografia caratterizzata da un bianco e nero elegante, tagliente e molto contrastato, in un’atmosfera onirica e surreale, che sottolinea le relazioni oppositive e i contrasti all’interno di una città come Teheran, ma anche lo stato d’animo e la situazione personale di Keywan Karimi, condannato per aver raccontato la storia del suo Paese, per aver dato voce alla sua città, che torna a raccontare in una favola gelida dai contorni neri ma da cui traspare amore e una bellezza estetizzante che incatena l’occhio ma a distanza, per dirla alla Brakhage, nel suo Metafore della visione: «l’allontanarsi è una stanca consapevolezza di troppo materializzarsi in uno stanco specchiarsi. Ciò di cui si ha bisogno è una fonte d’illuminazione più che riflessa».