Tsai Ming Liang lo vedrò tra poco in Sala Grande, ma ho già sentito di piani sequenza e randagi, e silenzi: è il film che più aspetto (almeno da maggio), quello da cui potrebbero arrivare le soluzioni (plastiche, coreografie, corrispondenze) più nuove ed emozionanti, ancora ricordando il materasso galleggiante alla fine di I don’t want to sleep alone, che reinventava l’amore, e l’acqua, gli stomaci macerati dei palazzi.
Ma una variazione (sorprendente, insperata) sul tema di Tsai è Ruin di Michael Cody e Amiel Courtin-Wilson, fuga di due emarginati (Phirun e Sovanna) dalla città cambogiana, sporca e violenta, sognando un futuro che abbia semplicemente la sostanza dell’acqua (fluviale: Los Muertos) e di un cortile polveroso dove giocare con una parvenza di famiglia. Tra musica elettronica “di ambiente” (magnifica) e un procedere urbano/terragno/acqueo che mette insieme, al limite, Mundruzco, Lisandro Alonso, Apichatpong Weerasethakul (ma in superficie), e certa videoarte appunto (a sgranare le sagome facendone grumi, chiazze di luce a volte anche patinate), oltre a Tsai Ming Liang ovviamente, il film si snoda in primi piani scavanti e in tappe di disperazione e di onirismo, notturno, invadente. Tant’è che ci si chiede com’è che un tale film non sia in concorso, e che lo siano invece cose discutibili come La moglie del poliziotto e Miss Violence, storie di annichilimento contemporaneo con un che di disonesto e nazista in filigrana. (Finora il film di gran lunga migliore è quello di Miyazaki, vero capolavoro testamentario; poi mi sono sembrati buoni Xavier Dolan, Amos Gitai col suo piano sequenza che alla fine levita fino al cielo; Errol Morris anche se si tratta di un film – estremo – di parola; poi è interessante la diversa visione dell’entroterra americano di Gordon Green, quella di James Franco, e della Reichardt che continua la sua “ricerca del west” contemporaneo: il resto è patinatura e medietà).
Al contrario Kim Ki Duk è sempre schietto e netto nell’esposizione della carne dei suoi film (talmente in profondità da risultare batailliano; e non scordiamoci poi dello straordinario, carnale appunto, procedimento metonimico per cui tutto si esprime per adiacenza e/o frizione di epidermidi, oggetti, luoghi: e per questo non c’è bisogno di parole, perciò in tutto il film nessuno dice o racconta; al massimo geme, sì, geme molto). Sarà anche divenuto più didascalico (da Arirang in poi: ma si sa cos’è accaduto in Dream che rappresenta il displuvio della sua filmografia), ma ha acquisito in compenso un’ironia che altrove era affiorata sporadicamente. Perciò si tratta di canzonatura di pene, da un lato (pene evirato, mangiato, ereditato, bramato, conteso, maciullato, ecc.), che si trasforma poi in vero Mito non tanto dell’organo, quanto dell’orgasmo, e del suo mezzo, il corpo, quale veicolo di privazioni, doni, contrappassi: la rivalsa della madre, fallifera, sul padre fedifrago, che si ripercuote sul figlio; il dono del padre al figlio; la vendetta della madre che ora rifiuta il padre disinnescato, e lui, il fallo ereditato, che s’alza solo per la madre, quando invece avrebbe l’amante a portata di mano, bella, bianca fanciulla, con grandi mammelle, che pure prova, scuote, friziona, succhia, per propiziare la monta, ma deve arrendersi, e accontentarsi della pseudo masturbazione da coltello, conficcato nelle spalle. Ed è un mito, quello dell’orgasmo (in regime di religione, buddista) che non può non ricordare lo straordinario Millennial Rapture di Wakamatsu (ma il richiamo sarebbe a tutta la sua filmografia), in cui l’eros era estasi e maledizione, e alla fine, unica condizione (e contraddizione) dello stare al mondo.