I primi istanti del film di Pallaoro sembrano rubati al cinema degli spazi aperti contemplati da Malick, Cimino, Rafelson: simile atmosfera diafana, luce incantata, con una famiglia in riva a uno specchio d’acqua; e si potrebbe essere nell’Ottocento, se non fosse per l’apparizione di una macchinetta fotografica a molla: click, ed ecco il primo sussulto temporale.
Medeas sembra tendere di continuo alla sospensione cronologica, a raggiungere una dimensione fuori dalla storia, che è proprio quella della letteratura, della pittura e dell’arte in generale. Ogni inquadratura è perfetta, calibrata, dipinta; si ha l’impressione che Pallaoro non ne sbaglierebbe una nemmeno se ci provasse. L’incapacità a commettere errori lo induce a piazzare sempre l’oggetto al centro dello sguardo della camera, componendo immagini equilibrate, simmetriche, persino quando ci si aspetterebbe il ricorso al décadrage nel momento in cui l’idillio famigliare si spezza. Invece Pallaoro preferisce spargere, all’interno del flusso immaginale, degli elementi di disturbo, delle piccole intromissioni tecnologiche provenienti da decadi diverse del Novecento (il mastodontico televisore in bianco e nero; il walkman; il pick-up) che mandano in frantumi l’aura mitica che circonfonde il film, tracce del passaggio del tempo, segnali di una minaccia incombente.
La contingenza, il dover vivere, il lavoro, sono sintomi dell’insostenibilità dell’aura, l’impossibilità di farne parte completamente. Le Medee diventano quindi plurime, ogni personaggio si prende in carico un piccolo frammento del mito: ci sono il tradimento, la vendetta attraverso il sacrificio degli innocenti, il desiderio, un (auto)carro che conduce verso il sole; c’è n’è pure una che canta come Patty Pravo… Il mito si perde, inizia il tempo della tragedia.