Vanna Carlucci
«Così ho pensato di andare in fondo alla grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso» (Anna Maria Ortese, 2001.)
Le luci sono spente, gli occhi in attesa e, d'un tratto, la nebbia avvolge i corpi, qui, tra le sedute rosse della sala, li sullo schermo, dentro il viale che porta a Recanati. Una melodia da carillon segue i passi di un bambino, il sogno di un'infanzia trascorsa fatta di giochi di spade tra fratelli. La musica continua sospesa in un tempo dove gli occhi di un poeta aprivano lo sguardo, li, al di là del colle, al di là di ogni limite fisico a rimirar “l'eterno”, a “naufragar” col pensiero.
Martone contempla questa figura marmorea del passato, la tocca, ne fa carne, la rievoca con tutta la sua gobba, questo involucro deforme e che è un corpo nel corpo, la sua adolescenza, il bambino che non fu, con i suoi desideri, gli slanci, la voglia d'amore e di fuga da Recanati, tutto accucciato sulla sua schiena, dentro il torace, tutto ancora in attesa, a gonfiarsi smanioso mentre il suono di un carillon lo segue raggiungendo persino la morte. Commuove il tocco di Martone, la sua sensibilità nel tracciare il profilo di un uomo incastrato dentro una giovinezza atrofizzata, che canta i propri versi sciogliendoli, adesso, in un tempo indefinito, tra 800 e i giorni nostri, facendosi guidare dalla musica di Rossini e di Apparat che segnano, adesso, con una levità che sprofonda dentro un passato e un presente, la giusta combinazione per ri-creare - con il cinema- la favola poetica.
L’ombra di Leopardi sfugge anche a Martone che non pretende di narrarlo in ogni suo aspetto, Leopardi è talmente vasto che “si potrebbero fare altri dieci film su di lui”: Martone sceglie l’onestà di mostrarlo così come lo si immaginava tra i banchi di scuola, davanti quella finestra che apre l’immaginazione, fanciullesco, infinito.
“La sua immaginazione è chimerica, visionaria” dirà Martone e allora la musica e l'immagine insieme creano un ponte di passaggio, un ponte verso l'universo di Leopardi sempre così chiuso dentro la sua prigione di carta, quella biblioteca immensa che di mondi parlava e che Leopardi custodiva come una malattia: lui cercava luce e allora eccolo sempre così esposto, come un ribelle, alla luce del sole, accanto alla finestra, a cercare, di notte, non la luna o le sue stelle ma la loro emanazione, quella evocazione che illuminava la sua stanza e generava fiati di un universo che si mostrerà alla fine con tutto il suo grido: un’ eruzione che squarcia il cielo e cambia di colore: il testamento di Leopardi è un canto finale, “una piaga[…] in mezzo al petto”, rosso di lava, perché la natura è statuaria e prepotente che si abbatte anche su di lui, fiore solitario in mezzo a un deserto di vita.
Bibliografia
Ortese, A. M. (2001): Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi, in Da Moby Dick all’Orsa Bianca. Scritti sulla letteratura e sull’arte, Adelphi, Milano