Nicola Curzio

altRicucire lo strappo, o meglio la ferita, il taglio, colmare, cioè, quella distanza che tiene lontani, che separa: ricongiungersi. È il sogno utopico di un popolo fantasma, disperso, quello armeno, vittima di uno dei più gravi massacri che la Storia ricordi, anzi che non ricordi, considerato che ancor oggi sono poche le nazioni che riconoscono ufficialmente questo terribile genocidio perpetrato tra il 1915 e il 1916 dal governo dei «Giovani Turchi».


Fatih Akin, regista tedesco di origini turche, prova a restituire questa storia e questa distanza, raccontando la vicenda (inventata) di Nazaret, un padre strappato alla propria famiglia che, sopravvissuto allo sterminio, tenta di ritrovare le sue due figlie, fuggite dalla loro patria alla ricerca di un luogo dove poter vivere. La lacerazione è già nel titolo (The Cut) e riecheggia nelle musiche del film, composte prevalentemente da brevi schitarrate elettriche che ricordano tanto quelle sentite in Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch, vere e proprie lame che potrebbero dilaniare lo schermo. E a proposito di cinema e di tagli, forse sarebbe il caso di menzionare anche Cut di Amir Naderi, pellicola straordinaria in cui il regista iraniano riusciva davvero a ferire le immagini, a farle sanguinare, e così ad aprire dei varchi, dei passaggi, autentici spiragli di senso; risultati cui invece non arriva, ma forse nemmeno ambisce, il film di Akin, che limita il suo discorso solamente a una dimensione narrativa.

Il principale cineasta di riferimento per Fatih Akin, però, è un altro: si tratta, inevitabilmente, di Atom Egoyan, regista di origini armene che nel 2001 realizzò personalmente un film (Ararat) sul genocidio subito dal suo popolo e che, più in generale, ha intessuto tutto il suo cinema con una poetica della separazione, della distanza1. Akin lo chiama in causa limpidamente, affidando anche un ruolo ad Arsinée Khanjian, musa e moglie di Egoyan. Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, il regista tedesco risolve la questione in maniera troppo sbrigativa (seppur la sua pellicola duri un’eternità), semplificandola sotto alcuni aspetti e ricorrendo a metafore spesso grossolane (la lingua morta del protagonista).

Anche a livello concettuale si ha qualche dubbio sull’onestà dell’opera. Si consideri ad esempio l’uso dei campi lunghi: essi sembrano tracciare un parallelismo, o comunque una continuità, tra il deserto asiatico e quello statunitense; in entrambe le terre, infatti, dilaga la violenza e avviene uno stupro sotto gli occhi sgomenti del protagonista. Ma più che per fornire testimonianze diverse delle brutalità subite, si ha il sospetto che le due scene servano a generalizzare il male umano, con l’implicito effetto di deresponsabilizzare, almeno in parte, quanto fatto dai turchi ai danni del popolo armeno. Tuttavia, la colpa più grave di cui si macchia il film è un’altra e si scopre nel finale: ritrovando e riabbracciando una delle sue figlie, Nazaret riesce a colmare la distanza, a ricucire il taglio. Proprio come avviene nel film di Charlie Chaplin, da lui visto prima di partire, che in questa maniera, da visione utopica, puro desiderio cristallizzato nella mente e nello sguardo, si trasforma in realtà. Il tradimento è qui, perché la realtà dei fatti diverge da quanto raccontato, perché la ferita degli armeni è tuttora aperta e si tramanda di generazione in generazione, perché la distanza non è ancora – e forse mai potrà mai – essere colmata, come ogni film, ogni fotogramma, di Atom Egoyan non smette di ricordare.


Note

1 A tal proposito si permetta di rinviare a quanto scritto su di Adoration.