Matteo Marelli

Che Ulrich Seidl fosse pittore d’agonie lo si era capito da tempo. E non tanto per la scelta dei soggetti coinvolti nella messinscena (comunque non per questo ininfluente) quanto per la loro messa in quadro. La componente figurativa del suo percorso filmografico raggiunge in Im Keller uno splendido fulgore che ci porta a leggere quest’ultimo lavoro più in termini pittorici che cinematografici.

Non tanto un film, piuttosto un’ancóna, riproducente una sacr(ileg)a rappresentazione neomedievale. Im Keller ritrae un paesaggio umano che compone un’immagine dell’Austria come sorta di sordido scantinato delle peggiori abiezioni politico-sessuali: una sentina di pulsioni piccolo-borghesi, razziste, nazionaliste e autoritarie, di violenza e oppressione, che sfociano in modo del tutto naturale in una fascistizzazione del quotidiano.
Ciascuno dei personaggi ritratti allestisce la cantina di casa (nicchia domestica deputata alla celebrazione del tempo libero) come un tabernacolo all’interno del quale officiare il rito eucaristico delle proprie evasioni. Degli spazi liturgici, delle edicole votive, che in quanto tali prevedono un approccio cerimonioso orchestrato su una rigida partitura coreografica. E Seidl asseconda con la propria regia la ritualità delle situazioni.
L’ossessiva fissazione del dato oggettivo, costante del suo gesto registico, sempre rappresentato con entomologica sensibilità, raggiunge, come già detto, in Im Keller un’intensità pittorica mai sino ad ora toccata: assoluta frontalità, totale profondità di campo (soggetto e contesto, sempre perfettamente a fuoco, si fondono e confondono tanto da diventare l’uno l’emanazione dell’altro, e viceversa), composizione simmetrica della scena, strutturazione complessiva dell’opera per quadri.

Il film risulta così una pala d’altare (o una monumentale Wunderkammer, scrigno disumano d’inedite socialità, in cui vengono bandite le regole del mondo esterno a vantaggio di dinamiche completamente interne a questo mondo chiuso) che racchiude un’orchestrazione di tableaux raffiguranti terribili giochi, resi ancora più terrificanti perché inscritti ai margini della routine quotidiana. Uno schema compositivo che, dando forma a una spazializzazione drammatica, non concede nulla alla facile drammaturgia, quella che spesso si insinua impunemente anche nelle più scrupolose operazioni documentaristiche.
Prendendo a prestito dal Pasolini di Salò (del resto sempre parte in causa con il cinema dell’austriaco, che non a caso lo indica come necessario riferimento per comprendere le traiettorie del proprio percorso cinematografico) Im Keller è «un mistero medievale», definizione che trova riscontro nelle parole già adoperate da Werner Herzog per raccontare del cinema di Seidl, definito, come «un’opera grandiosa e misteriosamente terribile, un raggio di luce che regala percezioni di una potenza luminosa così spietata» da ferire dal primo all’ultimo minuto.