Rivista

Mariangela Sansone

«Il pennino nero per colui che lo legge traccia nel margine bianco della vulva mostro: essere Tu essendo Io, essere altri: senza bisogno di essere io! Parole scambiate tra la china che scrive e la china lettore, star nudo a sognare ossessogni e star» (Julio Bressane)

 

L’immagine è un corpo, dotata di recettori sensibili, di terminazioni nervose, di organi e tessuti epiteliali senzienti alla tattilità dello sguardo. Trafitta dalla luce, dilaniata da baluginii incandescenti e luminosi si svela, nuda, offrendosi all’occhio voyeuristico dell’osservante. L’immagine è un congegno di carne, membri grondanti sangue, liquidi seminali, marcescenze esposte, in putrefazione eppure vive, palpitanti di desiderio. Quando l’immagine perde i suoi confini per mutarsi in un meccanismo anarcoide e libero, allora mostra ciò che non si mostra o che non è mostrabile, come le “perversioni” o, come le definiscono gli studiosi del settore, dopo averle ben disinfettate dal morbo e igienizzate, “parafilie”.

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Rodrigo Sebastián

Rivoluzioni in cielo come in terra. Le metafore proliferano in entrambe le direzioni. Appartenente in origine al lessico astronomico, il concetto di rivoluzione verrà assorbito dal campo della politica - non senza alterarne il significato - per pensare l'evento: servirà per designare, dal 1789, «una rottura e una radicale innovazione» (Traverso, 2018). Nei pochi secoli che separano l'assalto al cielo (postulato da Marx), dall'attuale eclissi delle utopie (esaminato da Enzo Traverso) emergeranno numerose e notevoli espressioni di una sorta di sguardo di Giano, rivolto all'universo e, insieme, alla vita terrena, che è necessario mutare di radice.

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Giovanni Festa

Americana

Jonas Mekas e Shirley Clarke lo dissero chiaro a Marcorelles, critico dei Cahiers che li attaccava sostenendo la mancanza, da parte del New American cinema, di dimensione politica, e di una disconnessione (a differenza, ad esempio, del cinema novo brasiliano) dalla vita: il loro cinema, sostenevano, era (a pensarci e a guardarlo bene), radicalmente politico e completamente americano. perché filmava l’essenza dell’uomo, affamato di una fame differente da quella dei suoi fratelli latinos: fame dell’anima che non vuole diventare macchina fordista o denaro (non a caso serializzato dal 200 One Dollar Bills di Warhol del 1962).

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Domenico Saracino

È difficile pensare di poter parlare di cinema e rivoluzione senza che alla mente s’affacci subito il ’68, e più in generale, il radicale sovvertimento che è proprio degli anni Sessanta, con le loro nouvelle vague nazionali e internazionali e le rivolte – formali e tematiche – contro il cinema (e le ideologie) “di papà”. 

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Eduardo A. Russo


«Che mai sarà una vasca di sangue
In comparazione a quelle che dovranno ancora scorrere?»

J.-P. Marat, in Marat/Sade

 

«Adesso io vedo
Dove ci conduce
Questa rivoluzione»

D.A.F de Sade, in Marat/Sade


Quando si pensa ai possibili collegamenti tra cinema e rivoluzione, il caso Marat/Sade sembra imporsi fin da subito per la tematica e i problemi che solleva: mette in scena, in modo oscuro e particolarmente denso, la storia, i personaggi e l'immaginario che circonda la Rivoluzione Francese. Lo fa attraverso il confronto immaginario fra due figure estreme: quella dello scienziato, medico, giornalista e rivoluzionario Jean-Paul Marat da un lato, e quella dell'aristocratico, filosofo, scrittore e drammaturgo Donatien Alphonse François, marchese de Sade, dall'altro.

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Giulio Vicinelli

Cinema e rivoluzione. L'associazione sotto un certo punto di vista è pleonastica perché, al netto d'ogni pur legittimo e interessantissimo discorso d'ordine tematico, stilistico, ideologico o politico, il cinema è rivoluzione, anzi, insieme alla scoperta della scrittura e a quella del digitale, è una delle tre rivoluzioni culturali che più profondamente hanno influito nel riplasmare tutto il quadro cognitivo e percettivo delle umane genti, finendo col soppiantare la realtà nella sua funzione di referente veritativo, solo unico e possibile, in molti aspetti della nostra esperienza.

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Sergio Sasso

Il dialogo iniziale di The Social Network tra Mark Zuckerberg e la sua ragazza Erica, fondamentale per comprendere il suo concetto di “relazione” che in-formerà questo singolare (falso?) biopic tratto dal fortunato ed esplicativo libro The Accidental Billionaires: Sex, Money, Betrayal and the Founding of Facebook di Ben Mezrich, è contrappuntato dalle note di Ball and Biscuit, con The White Stripes che cantano: «It's quite possible that I'm your third man, girl».

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Marika Consoli

«Le temps vu à travers l’image est un temps perdu de vue. L’être et le temps sont bien différents.
L’image scintille éternelle, quand elle a dépassé l’être et le temps» (René Char, Feuillets d’Hypnos).

Ci sono rivoluzioni che ti vengono incontro, dopo aver compiuto giri siderali, rovesciando il tempo, tornando da dove erano nascoste, occhieggiando: quando «Uzak», questa rivista dissidente, libera, non esisteva che in forma di seme, gettato non ancora consapevolmente sulla terra delle colline murgiane, e ruotava intorno a quel teatro che già nel nome portava l’idea della rivoluzione cosmica, che si effondeva su teste incendiarie, incendiate, mi era stato chiesto per la prima volta di scrivere di cinema.

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Luigi Abiusi

Già da qualche anno, dai tempi di Ostro dei Lay Llamas – che mostrava un orizzonte ultravioletto sulla superficie violacea del vinile uscito per Rocket Recording in un momento eccezionale per la psichedelia italiana: era il 2014 e vi risuonava, celeste e celestiale, il capolavoro dei Julie's Haircut, Ashram Equinox –, l'astro di Gioele Valenti aleggia sull'ecosistema dell'indie e della psichedelia contemporanea seguendo quella traiettoria proficua che unisce l'Italia al Regno Unito e vede brillare, nei cataloghi delle etichette londinesi, gruppi italiani come i New Candy, i Julie's Haircut, i Sonic Jesus, ecc., oltre alle molteplici incarnazioni di Valenti tra Lay Llamas appunto, Juju, Josefin Ohrn e ora Herself.

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Luigi Abiusi

Una prima versione di questo articolo è uscito sul "manifesto" del 31 luglio 2020.

Finito, forse per il momento, stando a ciò che dicono i più prudenti, il tempo dell'ingollare profluvi di materiale cinematografico insieme a ogni tipo di farinaceo fatto in casa, in solluchero da lievito, chiusi in casa, in stanza (tendaggi), i cinema sprangati tant'è che anche un film atteso, poi risultato discusso come Favolacce dei D'Innocenzo lo si è visto sulle piattaforme, ora i film tornano ad animare i cinema che nonostante tutto restano i chiaroscurali, inalienabili santuari dell'immaginazione, e tra questi alcuni davvero magnifici, itinerari dentro ambagi psicofisiche, buchi neri, labirinti sonnambolici come High Life di Claire Denis e Long Day's Journey Into Night di Bi Gan.

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Elvira Del Guercio

Donna Haraway è tra le più importanti esponenti del pensiero ecologista e femminista. Il suo Manifesto Cyborg (1985) forniva un “antidoto” al femminismo della prima ondata - tendenzialmente essenzialista e radicale, quello della differenza, per intenderci – aprendo le porte a una prospettiva teorica tecno-materialista e abolizionista del genere. Non siamo più vincolate ai confini dei nostri corpi: corpi che si ibridano, che si “compostano” per usare un termine harawaiano, andando al di là del limite naturale. La figurazione del cyborg definisce così una soggettività parziale e contraddittoria, tecnologizzata e non più binaria. Il corpo come territorio di sperimentazione ed emancipazione, passibile di alterazioni e modificazioni. La riflessione di Haraway passerà poi per gli studi animali e per la teoria delle alleanze multi-specie, coniugando studi scientifici e tecnologici, scienze naturali e culturali (Primate Visions, The Companion Species Manifesto, When species meet…) e che si delineerà in maniera più puntuale nell’ultimo Chthulucene: Sopravvivere su un pianeta infetto. Ed è proprio da quest’ultimo libro che Federica Timeto muoverà per il suo Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie. Tramite figurazioni e suggestioni visive e riferimenti filosofico-letterari, Timeto elabora concetti fondamentali del pensiero della filosofa americana attraversando tutti i suoi scritti e definendo le linee guida per una teoria femminista multi-specie, che non si ferma all’eccezionalità umana andando a tendere verso l’altro – umano e non umano. Ne abbiamo parlato con l’autrice.

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Giovanni Festa

I primi tre decenni del secolo vengono scossi dalla comicità e dal riso come il corpo di una rana morta si contrae se irrorata di corrente elettrica durante gli esperimenti galvanici. Nel 1900 Bergson scrive Il Riso. Saggio sul significato del comico, ma i fratelli Lumière lo avevano anticipato: cinque anni prima girano L'Arroseur arrosè, libero adattamento per le neonate motion picture di una serie di vignette utilizzate negli spettacoli di lanterna magica (il delizioso corto di un rullo, citato da Disney nelle forme ipertrofiche del cartoon in Paperino Pompiere, venne interpretato dal loro giardiniere, Jean-Francois Clerc).

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Giulio Vicinelli

Il grottesco è concetto arduo da definire, sfugge alla certezza e alla precisione della parola, perché, risalendo a monte, problematica ne è innanzitutto la concettualizzazione. Una problematicità di individuazione concettuale, e quindi di descrizione, che promana da una ambiguità mai dirimibile che è sostanziale, riguarda la natura stessa di questo grottesco. Il grottesco infatti è per definizione uno stato di promiscuità, di commistione o conflitto ma, perché no, anche di congiunzione (già vedete che l’ambiguità si manifesta) tra condizioni diverse, spesso tra loro antinomiche, il che ci rende difficile una descrizione univoca.

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Domenico Saracino

Settembre 1921: mentre l’alcol continua a fluire, inebriante, nonostante la proibizione per legge e il jazz, agli albori della sua “età”, «mette in sincope il peccato» (per riprendere il titolo di un articolo un po' beghino uscito il mese precedente a firma della presidentessa del Ladies Home Journal), un gruppo di ricchi hollywoodiani affitta tre stanze contigue nell’albergo più grande della costa occidentale (il "St. Francis" di San Francisco) con l’intenzione di fare una baldoria gatsbiana dopo mesi di lavoro. Una giovane donna finisce per lasciarci le penne su sfondo apparentemente sessuale, gli american tabloid gridano allo scandalo, un ambizioso procuratore distrettuale prende al volo la palla della visibilità nella brama di diventare governatore. È in questo scenario ellroyano che il corpo comico più noto e pagato del cinema muto – Roscoe “Fatty” Arbuckle – si trasforma, agli occhi del mondo, in un corpo grottesco.

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Rodrigo Sebastián

(Traduzione: Giovanni Festa)

La storia del cinema mostra da sempre l'utilizzo degli animali nei film. Dai famosi cavalli di Eadweard Muybridge allo sconosciuto cane protagonista di Adiós al lenguaje (Godard, 2014), un grande bestiario di specie diverse vive fantasmagoricamente nella terra delle ombre; l'asino di Bresson, gli uccelli di Hitchcock o i gatti di Varda e Marker, tra tanti altri casi, esistono attraverso il cinema, da esso imbalsamati. Sarebbe impossibile calcolare il numero approssimativo di animali usati nel solo cinema di Hollywood. Spiccano, in questa vastissima produzione, alcune commedie con animali assai note la cui abilità filmica resterà ineguagliata: A Dog's Life (1918) e The Circus (1928), di Charlie Chaplin; The Cameraman (1928), di Buster Keaton; Bringing Up Baby (1938) e Monkey Business (1952), di Howard Hawks. Oltre ad essere opere di poeti della comicità, hanno in comune un certo meccanismo comico legato a un motivo propriamente baziniano: l'incontro reale tra la bestia e l'umano.

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Alessandro Cappabianca

1.

Nel 1950, l’anno in cui uscì Viale del tramonto, Gloria Swanson aveva 51 anni, ma Billy Wilder fece in modo che ne dimostrasse almeno cento: aveva più o meno l’età del cinema, ma la tecnica si era evoluta con tale rapidità che ogni anno si può dire contasse per due. Non era solo l’avvento del sonoro, che pure aveva avuto un ruolo fondamentale: erano cambiate le posture, i gesti, gli atteggiamenti, i generi. Il concetto stesso di Divismo si evolveva in senso “realistico”, meno caricato e teatrale, cercando di far dimenticare le sue origini melodrammatiche. Norma Desmond, dunque, ha cent’anni, almeno agli occhi dei moderni produttori (con ulcera) e dei giovani sceneggiatori ambiziosi come Joe Gillis (W. Holden), morto che parla galleggiando sull’acqua d’una piscina, con tre pallottole in corpo.

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Giulio Vicinelli

Più è sacro dov'è più animale

il mondo: ma senza tradire

la poeticità, l'originaria

forza, a noi tocca esaurire

il suo mistero in bene e in male

umano. Questa è l'Italia e

non è questa l'Italia: insieme

la preistoria e la storia che

in essa sono convivano, se

la luce è frutto di un buio seme.

Il verso di chiusa della seconda parte del poema L’Umile Italia, che in sé è un’invocazione accorata della natura come primigenia forza, forza d’autentico, forza di vero, che ancora il poeta riusciva a scorgere nei paesaggi silvestri del Friuli e nelle rondini, a noi serve per rimarcare l’importanza del «grottesco», ricerca inesausta della contraddittorietà dell’esistente come categoria del pensiero pasoliniano.

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Marika Consoli

«[…] Finché sorriderò

Tu non sarai perduta

Ma queste son parole […]»

(Pier Paolo Pasolini)

«Fare opere in faccia / al vuoto»: così «il più amaro dei Poeti-Matti», quel Jim «pagliaccio che batte la frontiera» leggo – visioni di quell’altro Matto, Poeta alla frontiera del tragico, dove nel tragico sconfina il comico, corruga grottescamente la fronte, fa il ghigno del troppo umano sorvolo sulle cose, la smorfia beffarda che s’affaccia su questo, sempre più consueto, svilente microcosmo, scorrono: nella memoria, indietro, davanti agli occhi, dentro le orbite sfatte – e Deserto, in quella edizione dell’‘89 di Arcana Editrice curata da Schipa, assume ad ogni verso i contorni sfuggenti delle «nuvole», di quella domanda di Ninetto-Otello gettato con Totò-Jago tra i rifiuti di un reale desertificato, trova la verità nell’immaginazione: che non mente, che è mente, farsi racconto, raccordo, fiaba, quelle fiabe che sono Che cosa sono le nuvole ma anche La terra vista dalla luna e Uccellacci e uccellini.

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Raffaele Cavalluzzi

A introdurre il volume di C. Eastwood, Fedele a me stesso. Interviste 1971-2011 (a cura di Robert E. Kapsis e Kathie Coblentz. Edizioni minimum fax, 2019), sono i due curatori, che partono, quasi naturalmente, dalle difficoltà giovanili dell’attore-regista alla ricerca di un lavoro, che, all’inizio come attore, non gli riesce certamente facile nella Hollywood di grandi protagonisti del cinema degli anni Cinquanta. È l’inizio di una storia che lo porta però sostanzialmente a passare da due stereotipi consacrati dalla filmografia di quel tempo, lo sfrontato poliziotto-carogna e il freddo pistolero, a nuovi prototipi, destinati a diventare tali proprio grazie a lui, e ai grandi registi che nel frattempo cominciano a dirigerlo.

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Luigi Abiusi

Non si tratta di ubbidire al governo, tronfia sillabazione e nemesi degli aggregamenti komitivali, aperitivali, lo sballo per lo sballo stupido quand'è sera, i balli triviali nella fiera delle vanità sgranata nelle ciarle del locale, nel bistrot che vive nell'automatico tinnire dei calici, nell'allentamento delle mascelle oramai lascive, l'allettamento del gioco delle parti, delle maschere, bistrate, occhiute, catastrofiche; ma di acconsentire alla scienza, il sinodo di sapienti, cerusici che sobilla Conte; a quella ricerca (delle ragioni d'essere, che siano biologiche o filosofiche) che s'è eletta contro i fascismi, maschilismi, razzismi, insomma in nome di un cosiddetto bene comune.

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Alejandra Bottinelli

(trad. a cura di Giovanni Festa)

«Non muori perché sei un creatore
O perché sei questo corpo
Sei morto perché sei il volto eterno».

(Adonis, Deserti)

2666: un enigma. Il nome di un film di fantascienza dove le macchine ci dominano, mostri ci attaccano in autostrade perdute e piante crescono all’improvviso, mentre si moltiplicano omicidi senza nome. E c’è sempre un giovane scienziato che sospetta. 2666: è la nostra forma di immaginare il disastro, il western dell’ecodistruzione.

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Rodrigo Sebastián

327 Quaderni

Jean-Luc Godard suggeriva in un'intervista la maniera in cui un giovane aspirante cineasta potrebbe girare un film: dovrebbe limitarsi a raccontare un giorno della sua vita che, aggiunge ingannevolmente, è quello che James Joyce fece con l'Ulisse. Questa battuta dell'artista ammirato da Ricardo Piglia, fa luce anche sul pensiero dello scrittore e critico argentino.

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Eduardo A. Russo

«... Nel mio caso, un Diario serve da supporto alla memoria,
ma soprattutto perché dà alla vita di tutti i giorni
il carattere di un viaggio, di un periplo.
L’erranza, che è il modo naturale in cui la vita si presenta,
assume il significato di un'indagine, di una ricerca.»

R. Ruiz

Nel corso della sua lunga carriera, Raúl Ruiz si è specializzato nella produzione di un'opera di carattere esplorativo, imprevedibile, a volte ermetica ma sempre animata da uno spirito giocoso che unisce il profondo e il lieve, la digressione e la ricorsività, in un combinazione che, tra fascino e perplessità, si presenta allo spettatore come un vero marchio d'autore. Questo Diario, iniziato nel 1993, quando il cineasta cileno aveva 52 anni, e terminato nell'agosto 2011, pochi giorni prima della sua morte, soddisfa le condizioni per contenere, al suo interno (come i tre volumi della sua Poetica del cinema o le abbondanti interviste rilasciate durante il suo itinerario esistenziale) tutti questi aspetti.

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Daniele Dottorini

L’incipit del brano dedicato al Minotauro nel Libro degli esseri immaginari di Borges è folgorante: «L'idea d'una casa fatta perché la gente si perda, è forse più singolare di quella d'un uomo con testa di toro; ma le due reciprocamente s'aiutano, e l'immagine del labirinto conviene all'immagine del minotauro». Nella descrizione borgesiana, il labirinto è sempre abitato, è sempre pensato sotto la forma del doppio, della duplice immagine. La geometria mostruosa di un luogo si accompagna sempre alla mostruosità di un essere vivente e, soprattutto, entrambi sono immagini che si rispecchiano.

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