Michele Sardone

alt«Oriente e occidente sono tratti di gesso che qualcuno disegna davanti ai nostri occhi per beffarsi della nostra pavidità»
(Nietzsche, Schopenhauer come educatore)


C’è un’immagine che rende il senso di sbigottimento e di impotenza dinanzi agli attentati del 13 novembre a Parigi, quella ritraente gli spettatori dello Stade de France scesi in campo, nella più straniante invasione che si ricordi, e rimasti in piedi sul prato verde. Si potrebbe scommettere che se l’immagine fosse in movimento, i cambiamenti sarebbero impercettibili: il senso di immobilità, di quell’immobilità che può dare solo il terrore, pervade tutto il frame.

Potrebbe essere questa l’immagine definitiva che ricorderemo degli attentati? Nonostante i luoghi delle stragi siano stati altri – il Bataclan soprattutto – a distanza di poco tempo non abbiamo altre immagini che possano rendere in una sola volta il sentimento di una nazione dinanzi al terrore, se non, forse, il disegno della Tour Eiffel stilizzata e riconvertita nel simbolo della pace. Non è cosa da poco: sin dai dipinti su roccia della preistoria, il potere dell’immagine non è solo e non tanto quello di esorcizzare quanto quello di appropriarsi e mettere sotto controllo ciò che sfugge e deborda il limite dell’umano.

L’immagine che più ritorna quando si fa riferimento all’11 settembre è di certo quella delle Torri Gemelle squarciate e fumanti. La sua ripetizione in loop nei giorni successivi aveva anche allora il compito ambivalente di esorcismo e di appropriazione, ma non si poteva forse prevedere che a distanza di anni sarebbe stata l’unica immagine a rimanere (insieme a quella del crollo di una delle Torri) in ricordo degli attentati di quel giorno (in cui furono coinvolti, lo diciamo fra parentesi, anche altri aerei, caduti nell’oblio probabilmente per l’assenza di immagini spettacolari che ne riproducessero il momento dell’impatto).

Ed è sempre questa immagine che, surrettizia, è presente dall’inizio alla fine di The Walk, ed è con essa che Zemeckis ingaggia una sorta di lotta fra icone, nel tentativo, cioè, di esorcizzare l’immagine delle Torri in fumo con quella delle Torri dorate dal sole, non più attraversate dalle traiettorie di aerei suicidi, ma da funi in tensione fra le loro cime. Il tentativo quindi è quello di operare una sorta di reversione, un nuovo modo di viaggiare indietro nel tempo per poter modificare, se non lo stato delle cose attuale, almeno la percezione che noi abbiamo del presente.

Quel che sembra perduto nel film di Zemeckis non è però il mito dell’invulnerabilità americana, come tramandato per decenni dalla retorica muscolare e guerresca del Novecento; ad andar persa è stata l’immagine che l’America dava di sé come nuova terra in cui tutto fosse possibile, in cui si realizzavano i sogni di tutti coloro che vi approdavano. Philippe Petit, il funambolo protagonista del film, vede in New York il luogo in cui poter far prendere vita a un’immagine onirica che lo ossessiona e che, per esorcismo e desiderio di appropriazione, rende plasticamente visibile con la realizzazione di un pupazzetto in bilico su uno spago teso fra due torri, vero e proprio feticcio propiziatorio del suo progetto.

altMa la fune che Petit tende sembra trascendere le sue velleità individuali. Per potersi presentare pronto alla prova, il funambolo francese apprende la sua arte da un maestro girovago proveniente da un paese orientale di difficile individuazione. Questi darà a sua volta un oggetto feticcio in dono a Petit, oggetto che porterà con sé a New York. La fune che buca le nuvole e attraversa il cielo all’inizio della performance di Petit sembra quindi mettere in collegamento tra loro Est e Ovest, Vecchio e Nuovo Mondo, nel tentativo di rivitalizzare quel legame che ha fatto la fortuna dell’America, quello con l’Oriente (qualsiasi cosa si voglia indicare con il termine, sia la costa orientale degli Usa sulle quali sbarcavano immigrati europei, sia l’Oriente asiatico, al tempo stesso “estremo” e insieme così vicino alle coste del Pacifico).

Dopo gli attentati dell’11 settembre, il sogno americano sembra essersi infranto, non tanto per il propagarsi dell’azione terroristica quanto per la reazione paranoica che l’Occidente tutto ha avuto, ovvero la chiusura in sé e il conseguente rifiuto dell’altro, di chi viene dal mare, visto come minaccia da respingere o addirittura come nemico da combattere. Zemeckis insiste molto sulle misure di sicurezza che Petit ha dovuto eludere per portare a termine il suo piano: praticamente nessuna, sin da quando al suo arrivo a New York dichiara sfacciatamente alla guardia dell’aeroporto il suo piano, mettendo in bella mostra il suo bagaglio contenente cavi di acciaio, carrucole e armamentario vario (e ricevendo come tutta risposta uno sberleffo: si faccia il confronto con l’esperienza che ognuno di noi fa oggi negli aeroporti con gli addetti alla sicurezza, e di come possano diventare di colpo pericolosissimi e proibitissimi un accendino, un barattolo di miele o un coltellino per andare a raccogliere erbe).

Nel tendere la sua fune, il funambolo traccia una linea: sta poi a noi decidere se vedere un tratto che unisce due punti separati dal mare o una linea di demarcazione che divide il mondo in due. Un’altra linea, circolare e di gesso, lo stesso Petit era solito tracciare intorno a sé durante le sue performance parigine, per tenere distinto sé stesso dal mondo, l’incanto del funambolo dalla razionalità del quotidiano1. Le linee geometriche, irriducibili per loro natura, rimangono bidimensionali e irreali persino nel 3D. Ma quando il cerchio si spezza e si apre all’esterno, si tende come una fune e l’incanto invade il mondo.

L’ultima immagine di The Walk riprende le Torri infuocate dal sole, in contrapposizione all’immagine ultima delle Torri annerite dal fumo: l’immagine che chiude il film non è quindi realmente l’ultima bensì la penultima, un’immagine che quindi non chiude un bel nulla, ma che si apre all’infinita varietà del possibile. Petit sul cornicione di una delle due Torri, una volta vinto lo sguardo di quell’abisso vertiginoso che pare guardare dentro di lui alla ricerca delle sue paure, distante da ogni terra2, ma ancora troppo lontano dal cielo, ci dice che il possibile è di questo mondo esattamente come quello che ci sembra impossibile, folle e indicibile. Nel rimandare di continuo l’ultima camminata, volteggiando su quell’unica linea cui il 3D dona spessore e consistenza, Petit, che come un Barone Rampante (altro personaggio liminare, costantemente distante e vicino agli uomini) si ostina a non scendere, oppone agli ultimatum delle forze dell’ordine che lo vorrebbero far scendere dalla fune una resistenza penultimativa, come se percepisse che una fine e una conclusione fossero le uniche vere aberrazioni cui ribellarsi.

Ecco, forse bisognerebbe liberarsi proprio da quest’ansia di chiusura, di dover necessariamente porre la parola fine a un film, come a un discorso o a una recensione. Riprendiamo l’immagine di apertura con il pubblico di Saint-Denis, proviamo a dire qualcosa che ci sembra folle, impossibile, da sognatori: non è definitiva, una penultima immagine è ancora possibile.


Note

1 E un’altra linea, sempre di gesso, viene tracciata in Dheepan, ancora una volta per separare l’esterno, il mondo selvaggio e brutale delle banlieue, dal mondo interiore del protagonista, fatto di illusioni sognanti, plasmate sul modello di vita occidentale – famiglia, identità, lavoro: tutte finzioni che celano la sua originaria natura di guerrigliero.

2 Una vertigine simile si prova dinanzi all’occhio, di un nero abissale, della balena che in Heart of the Sea risponde allo sguardo in trance del cacciatore e vi scruta dentro. Nel mezzo dell'oceano (luogo indefinibile, essendo ogni punto, e quindi nessuno, il centro dell'oceano) si perdono le coordinate territoriali, impossibili da tracciare su una superficie fluttuante, anonima, senza padroni, e gli uomini si riscoprono tali.


Filmografia

Dheepan (Jacques Audiard 2015)

Heart of the Sea (Ron Howard 2015)

The Walk (Robert Zemeckis 2015)